Fratelli

un racconto di Ilaria Gremizzi,
tutte le fotografie di Simone Sasanelli.

I.

«Senti qua: “Per ospitare un Fratello bastano due metri quadrati al caldo”», legge mio padre. 

Mia madre chiude TV Sorrisi e Canzoni. Lascia dentro la biro per cerchiare i film che vuole vedere. Stasera tocca a Il Bambino d’oro. È la storia dell’erede di un dio. Eddie Murphy deve liberarlo da certi stronzi che gli fanno bere il sangue. In copertina, tre bionde ridono. 

«Mi pare una fregatura, Ivano». 

Si chiama Estrella. Come la birra spagnola. Estrella non vanta con me alcun legame placentare. È colei che mi ha allevata. Fa poca differenza, ma comunque una differenza. Lei e mio padre si sono conosciuti un’estate a Falconara Marittima. Lui faceva il muratore. Estrella le stanze alla pensione La Piovra Purpurea, dove lui alloggiava. Si sono incrociati in terrazza. Ivano stendeva il bucato. Lei colpiva i tappeti con un battipanni in vimini. Da quel giorno, mentre mangiava il panino al salame appoggiato al furgone carico di macerie, Ivano immaginava di morderle il culo. Lei, intanto, aspirava l’odore dei suoi boxer stesi al sole.

Una settimana e abitavano insieme. 

Intanto, la mia mamma ufficiale, all’anagrafe Cecilia Gemella, è andata sotto una macchina. Una Y10 bordeaux. La guidava Gilda Passero, infermiera in pensione diretta a una competizione semiprofessionistica di balli caraibici. La tomaia della sua scarpina da salsa e merengue ha spinto, inspiegabilmente, sull’acceleratore. Con il parafango, ha trascinato mia madre per dieci metri e le ha spalmato la fronte contro il cordolo del marciapiede, prima di frenare. A causa dell’incidente, Gilda Passero non ha potuto concorrere per il podio. Cecilia Gemella è giunta al gran finale della vita terrena. Io sono rimasta mezza orfana.

Hanno telefonato alla Piovra. La padrona si è messa una mano sulla bocca. Ha stretto nell’altra la catenina con il crocefisso. Balbettato che il muratore aveva già saldato il conto. E l’asino è cascato. Con la spagnola in groppa. E me appresso. 

Avevo un anno quando mi ricongiunsi con mio padre. Ne ho diciassette, oggi. Viviamo in un appartamento dalle piastrelle tutte diverse, abbarbicato a Milano come una patella allo scoglio. 

La pendola batte mezzogiorno. Fa il rumore di cucchiaio sul bordo di un’immensa tazza di porcellana.

Estrella, che mio padre chiama Torella perché è piccola e forte, spreme un blister con il pollice. Poi un altro e un altro ancora. Raccoglie nel palmo tre pasticche. 

«Intendo con te in questo stato, amore». 

Una pillola è bianca e tonda, una arancione oblunga, l’altra azzurra bombata. Mi chiedo chi sceglie i colori e le forme. Forse, da qualche parte, in un ufficio lindo, un tizio potentissimo mette le “X” su certe caselle, autorizza la messa in commercio di questa roba, che mio padre butta giù come fossero Morositas. 

Sul letto matrimoniale, ansima il nostro cane. Si chiama Olivertuist, è nero e ha più razze lui negli occhi che ingredienti una lattina di Coca-Cola. 

Dietro le tende c’è la nebbia spessa come cotone e c’è il mondo. Palpitano le luminarie natalizie. 

A casa non abbiamo fatto l’albero, perché Olivertuist lo vandalizza. Né il presepe, dopo che lo scorso anno ha mangiato una pecorella di plastica e il veterinario ha dovuto fargli la lavanda gastrica, che è costata la tredicesima di Ivano. L’unico segno del Natale, come lo chiama Torella, è un carillon con la capanna. Dentro ci sono Giuseppe, Maria, il bue, l’asinello e Gesù bambino. Lo abbiamo piazzato in cima alla scarpiera. Per farlo suonare Tu scendi dalle stelle e far ruotare la capanna bisogna salire in piedi su una seggiola. Pertanto, suona raramente.

Mio padre si mette a sedere. Olivertuist gli si appoggia alla coscia. Apre la bocca e tira fuori la lingua. Guardandolo, penso che o le bocche dei cani sono troppo piccole, o le loro lingue troppo lunghe. C’è un errore. 

«“La collettività ecumenica I Fratelli di Lucente è stata fondata dal fervente cattolico ed ex campione regionale di pétanque Lucente Colin-Goncalves nel 1947, sull’Isola dei Pavoni, alla foce del fiume Barbaconda, al confine tra Spagna e Francia, dopo che un banco di pesci azzurri ha indicato al signor Colin-Goncalves il luogo santo”. Cosa vuol dire ecumenica?» domanda papà.

Estrella apre uno spiraglio di finestra. Si accende una Marlboro rossa. Fuma a boccate veloci, con la testa nel vuoto.

«Che accetta tutti, penso». 

«“Dal 30 dicembre 1998 al 1° gennaio 1999, Milano ospiterà il raduno dei Fratelli di Lucente. Sono attese duecentomila presenze.” Tu guarda che roba. “È un’occasione di crescita spirituale per la diocesi, poiché il raduno si tiene ogni dieci anni, in località prescelte da Lucente Colin-Goncalves ispirato da calcoli cabalistici e ittici. La parrocchia esorta le famiglie ad aprire le case e i cuori ai Fratelli che ivi confluiranno per sperimentare la comunione nella fede”». 

Estrella ritira la testa. Chiude la finestra, scaccia un filo di fumo con la mano. Ha perle di umidità sui capelli crespi e neri.

«Devo provarti la pressione».

Papà si solleva la manica del pigiama.

«Non ci ho capito molto, ma mi sembra una bella iniziativa. Prendiamone uno o due, di questi fanciulli». 

«Ivano, no va a pasar».

Estrella impugna lo sfigmomanometro. Parla spagnolo raramente. Mi ha confidato che sua madre è scappata dalla Spagna e ha rifiutato di insegnarglielo, ma Estrella l’ha imparato lo stesso.

«Non eri religiosa? Ci siamo anche sposati. In chiesa. Gesù, se ci ripenso», dice mio padre. 

Mi indica con gli occhi. Olivertuist, pure.

«Le farebbe bene. Uscire. Stare con gente della sua età. Sarebbe un diversivo».

Pausa. Il muratore in pigiama manda giù le sue pillole, fa un rumore da oca. Il suo pomo d’Adamo è grosso quanto una prugna secca. Rutta. 

«Perché parlate di me come se non ci fossi? Ho diciassette anni, per la miseria», dico.

Olivertuist batte la coda. Solleva peli neri. Estrella passa una spazzola appiccicosa, ne preleva un mazzetto dalle lenzuola, in una lotta ineguale tra l’igiene e la biologia bestiale.

«Bene. Adesso che siamo riuniti, possiamo votare. Io dico sì. Estrella mi pare di capire che si astiene. Figlia, vuoi ospitare un Fratello al caldo?» insiste mio padre.

«Per fare cosa?» domando.

«Amicizia», tossisce.

Estrella gli porge il bicchiere.

«Sul volantino c’è scritto che andrete alla Fiera. È lì che ci sarà questo, dicono… raduno», continua.

«Ma. Come ci vado? In pullman? Chi paga il biglietto? Il mangiare?»

Mio padre estrae il portafogli dal cassetto del comò. È gonfio di banconote. Non capisco che senso abbia tenere sottomano i contanti, per uno che sta per morire. Allunga centomila lire. Ha la mano straordinariamente ferma. 

«Tu. Paghi tu. Buon Natale».

«Ma. Devo pregare?»

«Vedi un po’. Puoi anche muovere la bocca e basta. Nessuno se ne accorgerà. E a pregare, non si guadagna niente ma non si perde neanche».

Estrella avvicina le sopracciglia, spesse come fagiolini. Infila il braccio di mio padre in una fascia. Si porta l’indice alla bocca. Le si forma una ruga a forma di amo da pesca. Doveva essere una bella donna, quindici anni fa. Lo è ancora. Il color cimice della sua pelle, l’odore di caramello che le rotea addosso e gli occhi schivi, da lupa, la rendono speciale.

Olivertuist sbadiglia, mostrando due file di denti giallo mostarda. 

Fine delle trattative.

II.

Sono le otto e trenta del mattino, la luce del sole si è levata per fare un favore al mondo. Mancano tre giorni alla fine dell’anno. La pensilina dei pullman è brinata. Pare la banchisa di un continente coperto di mozziconi, scritte oscene e una spalmata, credo, di merda essiccata. In piedi, da destra: io, le tedesche Franka e Gundula che vivono a casa mia, un polacco con un moncherino al posto della mano, un uruguaiano dalla faccia come un pandoro, un gran fico norvegese. Tutti abbiamo una spilla con scritto I Fratelli di Lucente conficcata chi sul petto, chi sul braccio.

Ieri sera all’oratorio abbiamo cantato l’Alleluia in dodici lingue e mangiato il panettone Motta, dopodiché un gruppo di etiopi della comunità ha ballato scalzi e distribuito strumenti a fiato e percussioni, da suonare come accompagnamento. Se Ozzy Osbourne avesse incontrato Youssou N’Dour morso da una tarantola, ne sarebbe uscita un’esibizione migliore. 

Un sacchetto di plastica vuoto vola, abbraccia il palo della fermata. Guardiamo come se celasse una rivelazione, o anche solo una barzelletta. Saliamo sull’autobus, che parte sbuffando.

Fuori dalla Fiera, pattiniamo su marciapiedi lucidi di nevischio e sale, che palpitano di pulotti, cani e ambulanze che neppure prima o dopo un allarme bomba. Gente con gilet azzurri distribuisce sacchetti pieni di cibo. Ravioli. Carne pressata. Panini. Uva. Uva? Ci mettiamo in coda sotto un fusillo di cemento, stretti uno contro l’altro per il freddo. Qualcuno intona una melodia che, come un’onda, s’impossessa della folla, la gonfia. Si canta. Non so il ritmo né le parole.

“Non c’è niente di male a seguire la corrente. Se va nella tua direzione”, dice sempre mio padre. Adesso sarà a casa con Olivertuist a guardare Ok Il Prezzo è giusto

I numeri e io non andiamo d’accordo. Il che non mi ha impedito di capire che lo 0,1% o lo 0,2% dei casi rari di tumore cardiaco rappresentano percentuali diverse dallo zero. Ho scoperto che mio padre è malato quando ho letto il referto di un esame istologico. Estrella l’ha dimenticato sul sedile della nostra macchina. Una Citroën verde pisello dell’85 con un cuscino di Vasco Rossi. Non capivo le parole, allora sono andata su Internet. Ho decifrato il testo e rimesso il foglio nella busta. Da quel giorno, ripensare al gorgoglio di un modem a 56k mi nausea, come fossi su un traghetto che un demone usa per giocare dentro la vasca da bagno dei mari del mondo. 

È successo a settembre, un pomeriggio che aveva appena piovuto e i muri del palazzo mandavano un buon odore di bagnato. Molti pensano siano le piante a dover essere annaffiate. Secondo me, anche le case e le persone hanno bisogno di acqua che gli scrosci addosso, contro, fuori e dentro. Per questo motivo facciamo la doccia. Però, per pulirci dalle scorie che la vita ci deposita, servirebbe qualcosa di più invasivo. 

Un mesotelioma pericardico è una forma di tumore al cuore aggressiva che difficilmente si può affrontare con un intervento chirurgico. Né si cura con la radioterapia. Specie a uno stadio avanzato. Gli stadi, ho scoperto, non sono solo luoghi in cui si gioca a calcio o baseball o viene Ligabue. La radioterapia non ha nulla a che fare con la musica. 

«Canta una canzone di Celentano», mi supplica Franka, o Gundula. Sono gemelle monozigoti. 

Intono Azzurro, mentre mi stringo nella giacca vento, non so se più per la vergogna o la tristezza. Olivertuist è un’altra mia preoccupazione. Quando Ivano morirà, lui sarà senza padrone.

A Estrella, poi, gliel’ho detto. Che sapevo. Lei si è messa a piangere. Ha scongelato il polpo per farlo alla galiziana. Mentre lo cucinavamo, piangevamo tutt’e due e parlavamo. Abbiamo deciso che bastava così. Non avremmo coinvolto papà. Credo che Estrella sia diventata mia madre in quel momento. Non prima. 

III.

Ci accampiamo sul pavimento freddo. Aspettiamo l’arrivo di un Fratello, che celebrerà una messa. Passano le ore. Le nostre giacche bagnate si seccano. Ogni tanto qualcuno canta roba tipo John Brown giace nella fossa là nel pian in inglese. Il canto gonfia i gruppetti, si propaga, si spegne poi si riaccende dalle proprie ceneri, come un fuocherello acceso sulla sabbia e ravvivato dalla carta. 

Alla luce delle candele che abbiamo acceso e incollato per terra, il tizio norvegese è ancora più fico. Sembra Thor. Ha un culo così sodo che la mattina ci potrei poggiare sopra una tazza di caffellatte e usarlo come tavolino. Guardo le due fossette che gli incorniciano la bocca. Dentro, ci vivono denti smussati e sbiancati dal dio della perfezione ortodontica e che mai hanno incontrato una carie. Voglio mangiarlo. Posso mangiarlo?

«Bo».

Dice di chiamarsi così. Che diavolo di nome è? 

Si passa le dita nella chioma biondastra. Fa la coda. Emana odore di pesce e zucchero filato. Che cazzo mangiano, a casa loro? Forse è l’odore dei suoi ormoni. O dei miei.

«Significa vivere».

Non so di preciso dove sia la Norvegia. Mi confondo con l’Islanda. Come ci si arriverà? In aereo. I nostri figli, a chi somiglieranno? E le scuole? Esisteranno scuole italiane? Sicuramente. Mio padre non vivrà abbastanza per assistere al matrimonio. A meno che le cose non vadano molto veloci. Se rimanessi incinta, per esempio.

Sopra di noi, grossi neon gettano una luce ghiacciata. Le uscite di emergenza sono segnate in verde smeraldo, compaiono a intervalli regolari sui muri. Grosse pompe di calore ci alitano addosso. Thor accartoccia il sacchetto dei viveri, che ha già consumato. Si guarda intorno, come cercasse qualcuno oltre il mare di teste. 

«Adesso la portano. Dovresti andare. Ti libererà. Tu devi liberarti».

Tizi in bianco adagiano una croce in una tenda. Ricorda una yurta, quelle che ci sono in Mongolia. Le ho viste con Olivertuist a Super Quark

Quattro persone alla volta possono entrare e affidare i propri dolori a Dio. Unica regola: in silenzio. Penso che se ci vado, magari faccio colpo su Thor.

«Sento in te un conflitto», mi ha detto. 

Non so cosa significhi. Spero significhi che mi ha guardata. Anche lui. Prima di andare in Norvegia insieme, meglio assicurarsi che io sia in pace con me stessa.

Quando entro nella yurta, mi avvolge un odore di sudore e ammorbidente. Sono tutti così tranquilli che, se non sapessi che è difficilissimo, perché qui il massimo dello sballo è una bustina di Frizzi Pazzi, sospetterei siano strafatti dell’erba più pura del pianeta. Mi siedo a gambe incrociate. In ginocchio mi pare eccessivo. Tra parentesi, io manco ci credo. Poggio la fronte sul legno. Vibra. Pare bollire. Una donna magra si dondola con il busto. Si inginocchia. Posa la fronte sul legno anche lei. A turno, la gente va e viene, bacia la croce e si rialza, muta pensando. Perdo il senso del tempo. Finché una mano, esile come una spiga di grano poco irrigato, mi sfiora la spalla. È Gundula. O Franka. Tocca a lei liberarsi.

Quando esco dalla tenda, ho in testa, inspiegabilmente, una parola: “culla”. 

Torno da Thor. Sta mangiando una scatola di sgombri che qualcuno gli ha ceduto. Gli puzza la bocca. Ma ci morirei, lì dentro insieme ai pesci sottolio.

«Allora?»

«Allora niente. È andata bene, penso».

«Accetta la tua croce. Prendila e impiantala nel tuo cuore».

Guardo la vaschetta degli sgombri svuotata. Mi sento così anche io.

«Mio padre ha il cancro».

Lui si pulisce le mani sulle labbra.

«Oh».

Cerco di capire se le distanze tra me e Thor si sono accorciate. Gliel’ho detto apposta.

«Un cancro mortale. Gli manca poco».

Solleva una manica della felpa con scritto Santa Cruz.

«La frase che ti ho detto è di un cardinale vietnamita che è stato in carcere tredici anni. Me la sono tatuata».

Vorrei dirgli che anche io ho un tatuaggio. Me l’ha fatto il nostro vicino di casa. Nel suo box, con un ago da cucire, sterilizzato prima nell’acqua ossigenata e poi sul fornello da campeggio. Non glielo dico. 

Le distanze tra noi sono aumentate.

IV.

Dalla non è un cantante. È un consiglio. 

Dice così il cartello plastificato sopra l’ingresso dello Stratocaster, il bar della pompa di benzina alle pendici del paese. Sono le 20.20 della sera di Capodanno. La Fiera ha chiuso i battenti. Siamo approdati qui dopo l’ultimo giro di yurta.

Splinter è il barista, così chiamato per la sua somiglianza con il maestro delle Tartarughe Ninja. Di arti marziali non gli frega. La sua passione è il rock. Solo che il rock non ha lui come passione. Nel retrobottega, infligge lezioni di chitarra elettrica ai ragazzini. Loro non imparano e lui si dispera il doppio, per la mancata carriera e l’incompetenza degli allievi. Si consola a botte di diecimila lire. Il prezzo di una lezione. Va in giro a dire che se incontrasse Joe Satriani gli chiederebbe se può succhiarglielo. Lui a Satriani, credo. E compra chitarre usate, Splinter. Che non sa suonare. Allora le appende, lontano dalla cucina o si ungono. Le contempla. La madre gliele spolvera con un aggeggio che pare la coda di una puzzola. 

Splinter sa fare il suo mestiere di barista. Sapeva che c’erano in giro i Fratelli e che la notte di Capodanno fa venire un’ecumenica sete. Si produce in un topesco sorriso e batte le mani una contro l’altra appena ci vede entrare. Ha già calcolato quando spenderemo, a cranio. Stipato le cellette frigo di Cinzano, Moscato, Lambrusco e Limoncello. Organizzato il karaoke. Se, come esiste il DSM per le infermità mentali e fisiche, vi fosse un catalogo delle perversioni sonore, lo includerebbe. Il karaoke, intendo.  Tengo  questo pensiero per me, perché i Fratelli di Lucente sembrano molto eccitati all’idea di cantare e non voglio rovinargli l’umore. I Ricchi e Poveri, Tozzi, la Cuccarini e una raccolta di canti per l’animazione liturgica saturano, a turno, lo spazio e il tempo. 

Scoccano le ventidue e trenta. L’aria sa già di zolfo, qualcuno prova i botti, che lasciano nell’aria nera e straordinariamente tersa graffi biancastri. 

Una stufetta elettrica ruota, arancione, in un angolo, vicino a una Madonna in gesso con un rosario fluorescente attorcigliato alla mano. Ci sediamo a un tavolo. La tovaglia è assicurata con ganci di metallo. 

Li vorrei anche io, due o tre ganci, perché sento che sto mollando gli ormeggi. Chi è questa gente? Perché Bo-Thor è così fottutamente Bo-Thor? Non poteva restarsene in Norvegia a cacciare foche, anziché venire qui e farmi scoprire che esiste? L’anno finisce. Come sarà il prossimo? Perché non ho un fidanzato? Perché Splinter non spegne la musica? Perché Splinter non crepa? Un bell’incendio causato dalla stufa. Pensieri di morte mi strisciano dentro. Mi afferrano la gola. Li vedo.

Bo e Gundula. O Franka. Si baciano contro la porta dei cessi dello Stratocaster. Ballano. Fanno cadere gli elenchi del telefono da uno sgabello. Ridono. Scommetto che la tedesca ha entrambi i genitori. Se ha un cane, sarà un cane da esposizione. Sussulto.

«Secondo me questi qui sono buoni, cari ed ecumenici finché non gli tocchi le loro canzoni di chiesa o da boyscout», urla Splinter alla mia nuca, poi si allontana. 

Sullo schermo corrono le parole: “Giona nella balena. Felice fu. Felice fu. Benché in prigion”. I Fratelli ululano. Splinter versa da bere. “Perché sebbene in pena poté mangiar. Dello storion”. Splinter muove avanti e indietro la testa capellona. Alza il volume. “Ma il terzo di’ lo vomitò. Senza pietà”. Ha le braccia pelose incrociate, un piede che batte per terra come un pony, il prossimo CD sotto l’ascella.

Esco. 

A mezzanotte e dieci, spingo la porta a soffietto della cabina telefonica, dove qualcuno ha gettato una mascherina di Carnevale colorata, come da Arlecchino. Infilo una scheda. Mi tappo un orecchio perché i fuochi d’artificio trapanano i vetri.

«Ciao, sono io. Buon anno».

«Da dove chiami?»

Di solito non mento a mio padre. Ma c’è sempre una prima volta. Serviva solo un motivo.

«Da un posto pettinato vicino al Duomo. Mi ci voleva. Avevi ragione».

Trattiene qualcosa. Forse parte del frullato di pollo che beve a cena. Forse, commozione.

«Ragazza di poca fede», dice. Non intende quella religiosa. È il suo modo per diluire le conversazioni troppo dense.

«Passami Olivertuist», dico. 

Sento la televisione e la voce di Estrella in sottofondo. Sta cercando di stanarlo da sotto il divano. 

«Dille di non tirarlo per le zampe davanti».

Olivertuist è un cane santo e non morderebbe mai. Però, in situazioni del genere, un avvertimento dovrebbe inviarlo, per dimostrare di non essere un pupazzo. Che so, un ringhio. Devo spiegargli come va il mondo.

«Se non si riesce, fa niente», dico «tanto, ci vediamo domani».

Mi accorgo che sto piangendo. Fanculo. Allontano il ricevitore. Oltre la cabina, volano comete profane, fumogeni, tappi di sughero.

«Si riesce, si riesce».

Estrella ha la voce affaticata. Deve averlo preso in braccio. Pesa diciotto chili e mezzo. Un terzo di lei.

«Buon anno, Olivertuist». 

Riappendo.

Fanculo. L’anno nuovo è appena cominciato e ho già detto due parolacce. Due volte la stessa, però.

V.

Non ho mai più ricevuto notizie di Bo, delle omozigoti tedesche e dei Fratelli di Lucente. Mi restano due fotografie, sabbiose e mosse, scattate con la macchinetta usa e getta. Il pollice di Splinter occupa un angolo in alto a destra. 

Mio padre è morto il 30 dicembre dell’anno dopo.

A Sant’Ambrogio, quando ormai si capiva, Estrella e io abbiamo esaudito le sue ultime volontà. Lo abbiamo avvolto nel piumone con disegnati i pinguini e portato a Falconara dove si sono conosciuti. È venuto anche Olivertuist, che purtroppo in macchina ha vomitato, per cui abbiamo dovuto fermarci all’Autogrill e buttare via i tappetini. 

Non ce ne importava molto. Di fronte alla morte imminente di una persona, il prezzo da pagare per la sostituzione di un oggetto pare irrisorio. C’è, nella veglia della morte, uno spicchio o un boccone di scelta, di libertà che qualcuno ci caccia in bocca, come un frutto esotico, lussuoso, dolce. 

Arrivati al mare, il cane è stato bene. Ha fatto il bagno. Quando è uscito dall’acqua, era così pesante che non riuscivo più a prenderlo in braccio. Si è scosso e ci ha benedetti. 

Tornati a casa, Estella, Ivano e io eravamo contenti di non avere l’albero, né il presepe e neppure il raduno. Avevamo bisogno di stare soli senza niente da festeggiare. Abbiamo lavato Olivertuist con lo shampoo Timotei e l’abbiamo asciugato con il phon.

Il funerale è stato semplice. Lo abbiamo fatto il 2 di gennaio del 2000. È potuto venire anche Olivertuist, perché il nostro prete è un progressista. 

Ivano lo abbiamo cremato. Non capisco perché si dica così. Il suo corpo è diventato cenere, non panna. 

Dopo, siamo tornati a casa. Non abbiamo organizzato niente, neanche due pasticcini di ringraziamento. La gente era ancora piena da Capodanno. Estrella, poi, non era nello spirito. Abbiamo buttato via tutte le pillole. Secondo lei, Olivertuist poteva mangiare anche quelle. Le altre cose non le abbiamo toccate. Emanavano ancora lampi di vita.

«I cani, loro, si adattano» ha detto Estrella.

editing di Anna Chiara Bassan.

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