


un racconto di Martina Draft,
tutte le fotografie di Giulio Lazzarini.

[08:45, 16/12/2023] Grito Rebelde:
Stanno sgomberando il Grito, ci siete?
Sara prende dall’armadio un paio di leggins neri e ci fa piovere una massiccia spolverata di talco. Con il taglierino incide tre fori sulla stoffa all’altezza della coscia destra, passa l’indice da lato a lato e allarga i primi due mentre il terzo viene strappato con forza. Il tempo di un click e la punta è già dentro alla carne e ruota lenta, un millimetro alla volta, sempre più in profondità, nella parte molliccia della coscia dove si accumulano grasso, cellulite e le battutine sarcastiche di suo padre. Fissa la ferita e le cicatrici intorno, getta la testa all’indietro e non pensa più a niente. Il piacere dura poco, poi torna concentrata sulla preparazione. Con la spazzola abrasiva strofina forte sulle punte degli anfibi, osserva il risultato e si complimenta con sé stessa per l’effetto grunge. Guarda in basso verso la zampa di elefante che si allarga sugli stivali e che copre la linguetta con scritto Dr Martens. Dal mucchio di vestiti sulla sedia viene estratta una felpa scura, è di tre taglie più grande rispetto alle altre e questo la fa stare tranquilla, perché una volta indossata andrà a occultare il logo Nike sull’elastico dei pantaloni. Quanto al logo della felpa, ci pensano tre spille a farne una vaga geometria di virgola a metà.
La mimesi è quasi completa, ma già così può essere scambiata per una di loro. La cosa la rende sia fiera che nervosa; in fondo, lei all’inizio non ci voleva manco andare alle manifestazioni.
Fila svelta per il corridoio, dove la donna di servizio sta pulendo una macchia sul centrino della cassapanca. È un mobile antico e pomposo, in legno massello, di quelli che si tramandano da una generazione all’altra nelle case della gente dabbene, e che vengono buoni per buttarci tutto quello che contrasta con il feng shui domestico: dalle scatole di chiodi arrugginiti alle tovaglie démodé, dai catenacci per il motorino ai cimeli di villeggiature tropicali. A Sara non interessano né gli uni né gli altri, ma lo zaino che sta sul fondo, quello con scritto ACAB. È una sacca lercia, che una volta è stata verde foresta.
«Passamelo!» ordina alla signora, senza convenevoli né cortesie.
Tutta suo padre, pensa Agnese mentre accompagna lo sbattere della porta con un vigoroso dito medio, alzato per aria come un trofeo.
Dopo trenta minuti e dieci fermate di autobus, Sara arriva a Mezzocolle, alla periferia di Padova. È davanti al Grito con un centinaio di ragazze e ragazzi, insieme ad alcune vecchie leve del Centro Sociale. Hanno tutti voglia di fare zizza, specialmente i celerini. Pizzinato, il capo della Digos, si sta già sfregando le mani.
Arrivano altri gruppi di giovani, incazzatissimi, e contemporaneamente si avvicinano le camionette del Reparto Mobile. Pizzinato è così contento che ne approfitta per una pausa rinvigorente in uno dei furgoni, un Iveco Eurocargo 4×4 con dodici poliziotti, uno più esaltato dell’altro.

«Buona questa! Sale che è un piacere!» dice rivolto all’agente semplice Antonello Spiezio.
«E mo’ jamm’a parià!» risponde questo, inspirando rumorosamente.
Te te godi co’ poco eh, teròn de merda. – pensa mentre torna fuori al gelo, battendo i pugni sulla carrozzeria.
Sara vede la scena attraverso le lenti spesse della sua maschera e lo immagina steso sull’asfalto, agonizzante, con il naso pieno di coca e con una cartuccia di gas Cs ficcata in bocca. Le scappa una risatina e la protezione antigas gliela restituisce ovattata, il che le ricorda il ghigno di suo padre ogni volta che la vede scendere dalla bilancia, dove la pesa ogni giorno, da quando era bambina. Come se l’avesse sentita, Pizzinato si gira e le rivolge un sorriso da iena. Sara guarda il suo corpo e ha la certezza di non avere neanche un centimetro esposto, non un singolo capello a tradire la sua identità. Fa un breve check dell’equipaggiamento:
- Balaclava integrale (checked);
- Maschera antigas (checked);
- Casco (checked);
- Protezioni su gomiti e ginocchia (checked).
C’è tutto, come illustrato sul manuale di guerriglia urbana di Carlos Marighella, che si è studiata con rigore, e nella cui prefazione avevano scritto: Per un futuro libero dalla violenza e dagli oppressori. Sara aveva pensato a quanto fosse contraddittorio, e un tantino assurdo, dover usare la violenza per liberarsene, ma tant’è.
La prima carica è come un rito di corteggiamento: arrivano gli scudi, seguono i manganelli e infine i corpi; la folla indietreggia e si crea un moto ondoso che, se visto dall’alto, sembra un colpo di scopa contro un pavimento imbrattato di spazzatura. La seconda carica è più violenta: gli animi sono incandescenti e la spinta è così poderosa da produrre un rinculo, dalle prime file verso i lati, comprimendosi al centro; non stupirebbe se a un certo punto tutti balzassero in aria all’unisono e scomparissero in un geyser di pelle e fumogeni. La terza carica è l’equivalente umano dello straripamento di un tombino: spuntano le mazze, gli idranti, le molotov, i cassonetti rovesciati. Di solito la zizza finisce qui. I disobbedienti vengono dispersi, le orecchie fischiano, il cuore galoppa, la saliva si azzera e la gola brucia per lo spray urticante. Ma la voglia di menare le mani si è bella che esaurita.
I bulldozer sono rimasti fermi e solo pochi poliziotti sono scesi dai blindati, ed è piuttosto strano, ma a ben guardare i manifestanti non sono così numerosi e nemmeno in gran forma; c’è aria di Natale e molti fuorisede sono tornati ai rispettivi paesi. Alcuni arriveranno nel pomeriggio dal torinese, un autobus salirà addirittura da Roma; in serata canteranno tutti che Il Grito non si tocca, e Il Grito qua e Il Grito là, e Bella Ciao ciao ciao, e Bandiera rossa la trionferà. Dormiranno sui sacchi a pelo e guarderanno in cagnesco i pulotti che fanno picchetto davanti al Centro. Il mattino seguente arriverà il Questore, tratteranno, faranno la voce grossa e poi torneranno tutti da dove sono venuti, in attesa della prossima minaccia di sgombero. Se è fortunata, Sara riuscirà a fare una capatina dalla Michi Franzosi, a casa della quale si suppone che passi la notte, almeno secondo la bugia confezionata per i genitori.

Pizzinato invece dormirà nel suo letto, accanto alla moglie, e al mattino si lamenterà, brontolando che la donna di servizio ha usato ancora la varechina per pulire le macchie e, a causa sua, lui ha dormito di merda ancora una volta. «Lavali meglio, cazzo!», ordinerà alla signora, senza convenevoli né cortesie.
La sera al Grito va proprio come immaginato, con qualche piccola variazione sul repertorio musicale, – i Modena City Ramblers, per dirne una, non riscuotono più il successo di una volta dopo che Cisco è uscito dal gruppo, ora si preferisce gorgheggiare sull’eco esotico di Manu Chao – nel frattempo, fuori, una nevicata non prevista costringe i ragazzi di vedetta a ritirarsi dal piazzale all’atrio.
Sepolta sotto due strati di coperte di lana, Sara medita sul fatto che lei non è portata per queste cose, lei è fatta per le belle arti e la poesia e per un domani da intellettuale. Inoltre, le fanno schifo i compagni, i loro aliti di sigaretta spenta, i loro vestiti dozzinali e i loro capelli sudici; odia i loro slogan anacronistici, il timbro delle loro voci da megafono, il continuo salmodiare di capitalismo, rivoluzioni e proletariato. Ma più di tutto odia il cognome di suo padre, e di conseguenza lui, e tutto quello che rappresenta. Quel cognome è il motivo per cui a scuola i professori le portano rispetto, ma i suoi amici la prendono in giro chiamandola sbirra. Quel cognome è il motivo per cui sta aspettando che arrivi mattina, in mezzo a persone semisconosciute e al freddo becco di metà dicembre. Ha già deciso che questa sarà l’ultima volta, poi torna col naso sui libri, e via a rigare dritto, obbediente come sempre.
I fasci arrivano a luci spente, saranno le tre o quattro di notte. Per mesi la polizia sosterrà di non averli visti entrare, e per mesi i compagni li accuseranno del contrario.

Sara sente un rumore forte e secco, come se qualcuno avesse spaccato una noce, grande come la sua testa. Non le sarà possibile raccontare a nessuno quello che ha visto prima di quel fragore, ma se gliene venisse data la possibilità elencherebbe per filo e per segno il numero di ossa che hanno spezzato al compagno Favalli e il colore e la consistenza del sangue uscito dal naso del compagno Paltonieri; direbbe, se glielo chiedessero, quanto può durare l’eco di un urlo; sarebbe in grado di dire con precisione anche quante sono le chiazze lasciate dalla compagna Manfreda sul pavimento del bagno e quante sono esattamente le ciocche di capelli cadute dal cranio della compagna Franceschi. Indicherebbe la pozza di urina nella coperta che avvolgeva il compagno Bianchi. Affermerebbe che i fasci erano tre volte il numero di denti trovati a terra il giorno dopo, e che erano armati con lo stesso equipaggiamento della celere quel pomeriggio. Giurerebbe di aver visto un compagno strappare dal collo di uno di loro una piastrina militare con le iniziali S.A.
Si soffermerebbe sui particolari sottili, quelli che gli altri non potevano notare, e che lei difficilmente noterà ancora. Come, ad esempio, che la noce grande come una testa era la sua testa, o che il numero di ossa che hanno spezzato al compagno Favalli è di sedici e il sangue uscito dal naso del compagno Paltonieri era rosso vivo, privo di coaguli e inarrestabile; che la durata dell’eco di un urlo è direttamente proporzionale alla forza impiegata per fracassare i malleoli con un martelletto frangivetro; che le chiazze lasciate dalla compagna Manfreda sul pavimento del bagno erano quarantasei – sette a causa della rottura delle pareti del nervo vaginale, trentanove per l’aborto spontaneo successivo allo stupro – e le ciocche di capelli cadute dal cranio della compagna Franceschi in origine erano tredici, ma una è finita in tasca all’assistente capo Marras, come souvenir. Direbbe che la pozza di urina nella coperta che avvolgeva il compagno Bianchi aveva la stessa forma della mappa del Centro America. Affermerebbe che i fasci erano settantotto, dodici dei quali erano radunati nell’Iveco Eurocargo 4×4 nel pomeriggio, compreso l’agente semplice Antonello Spiezio, proprietario della piastrina militare rinvenuta dopo l’agguato.
[08:45, 22/12/2023] Grito Rebelde: Sta per iniziare il funerale di Sara, ci siete?
Le campane del Duomo suonano a morto, i fiati di chi aspetta il feretro si addensano davanti alle bocche come fuochi fatui, i tacchi delle signore picchiano sui sampietrini e le frange delle sciarpe si agitano scomposte. Un’anziana sugli ottanta, con le mani dietro la schiena e il berretto premuto fino agli occhi, guarda l’epigrafe da cima a fondo e indugia col dito sul nome:
Sara Pizzinato
di anni 17

editing di Alessandro Tesetti.
