Deridete

un racconto di Elina Sventsytska,
tutte le fotografie di Claudia Bozzato.

Quando si svegliò al mattino guardò fuori dalla finestra per vedere se fosse cambiato qualcosa, ma tutto era come sempre. L’odore di spazzatura del giorno prima, il ronzio delle mosche, il grido di un gabbiano, tutto come prima. La stessa noia. Il tetto della casa accanto, ardesia grigia con chiazze d’acqua e di umidità, era davanti ai suoi occhi. Nient’altro dalla mattina alla sera, nient’altro da guardare. La stessa noia. La stessa nоia. L’eterna routine.

Alessandro bevve il suo caffè, come sempre poco appetibile, chissà perché? ma almeno era tranquillo. Sua moglie si sarebbe alzata presto e allora sarebbero cominciati gli orrori.

Erano passati anni dall’ultima volta che aveva visto sua moglie allegra. Alessandro non sapeva il perché, per cui si era sforzato di fare del suo meglio, inventando battute divertenti per lei. Per esempio, una volta si era buttato a terra ridendo e agitando le braccia; aveva cercato di imitare un gabbiano, beccando la spazzatura da un sacco abbandonato; un giorno si era azzardato a imitare la camminata della moglie, che aveva un modo tutto suo di camminare a lunghe falcate, ma l’unica cosa che si era sentito dire fu che era un idiota e Alessandro si era sentito un idiota.

Stava iniziando il fine settimana e per Alessandro era sempre durissimo. Quando le persone ordinarie si rilassavano, lui era costretto a lavorare. Non gli piaceva il suo lavoro, ma non aveva altro: per lui era fondamentale avere un lavoro creativo, all’aperto e con le persone, di fatto con dei bambini che, ovviamente, erano senza dubbio il futuro; ciononostante gli facevano molta paura. Alessandro aveva una costante paura dei bambini, anche se non gli avevano mai fatto del male. Pertanto ogni fine settimana si metteva il cilindro giallo a pois rossi, il naso rosso, il colletto lilla e si recava in piazza a vendere palloncini. I bambini si avvicinavano a lui, toccavano i palloncini e gli sorridevano, ma questa era la parte peggiore:lui non poteva sorridere loro, non sapeva cosa dire loro, non voleva parlare con loro. Avrebbe lasciato quella maledetta piazza con i palloncini se non avesse saputo che sua moglie lo aspettava a casa.

Quindi fu contento di uscire di casa, dopotutto nessuno si curava di lui quando si presentava in piazza.

Uscì sul balcone per fumare. Il sole stava sorgendo sulla casa accanto, bianco al centro, giallo ai bordi, e la sua luce colpì perfidamente i suoi occhi. 

«Fa di nuovo caldo…» mormorò. «Mi scioglierò tutto il giorno». 

Sua moglie si svegliò e accese la lavatrice.

Alessandro non riusciva a capire da dove venissero tutte quelle cose che sua moglie lavava con tanta fatica ogni giorno. Al mattino sul balcone trovava un completo da letto con un disegno di anatroccoli danzanti (mai visto prima), alcune magliette bianche lucide (mai da lui indossate), pantaloni sportivi (troppo larghi per lui), grandi asciugamani mai osservati nel suo bagno. La lavatrice era vecchia, molto vecchia, dapprima aveva iniziato a sferragliare, poi, stanca, aveva fatto scricchiolare il ferro e si era fermata, per poi iniziare a lavare, scricchiolando e sibilando. Fu come se la casa si fosse riempita di serpenti, come se un falò fosse scoppiato all’improvviso, moto in frantumi che sfrecciavano, rallentavano e ripartivano verso l’ignoto. 

Alessandro non voleva vivere in questo clima, non capiva come facesse sua moglie a vivere così. Poteva naturalmente chiederglielo, ma per non si sa quale motivo non volle farlo. L’unica cosa che volle fare ora fu evitare di dare nell’occhio in mezzo al frastuono e al rumore, uscire di casa senza essere notato. Quasi ci riuscì. Cercando di non fare rumore, mise insieme velocemente il suo costume da clown e i suoi palloncini, uscì nel corridoio, si mise i sandali e aprì la porta… ma sua moglie uscì nel corridoio e disse, sorridendo ironicamente:

«Vai al lavoro?» la voce gli graffiò le orecchie come carta vetrata.

«Beh, sì…» rispose sollevando le spalle.

«Il tuo ridicolo lavoro?» la voce non grattò più, ma raschiò, come se un coltello fosse stato trascinato sul vetro.

«Perché ridicolo? Non tutti i pagliacci sono divertenti, no? Io sono un pagliaccio triste» cercò di fare una smorfia triste, come se stesse per piangere, ma quando si rese conto che avrebbe potuto piangere davvero chiuse stancamente gli occhi.

«Comunque buffo» rise e si voltò per non mostrarle gli occhi lucidi.

Sbatté la porta e si diresse verso la piazza. “Così sia, così sia, così sia”, pensò, “pagliaccio ridicolo o triste, che differenza fa? Se ridi di me, ridi, purché tu sia sana e in salute! Ridi, e poi — riposati, riposati…”

Camminava e pensava e guardava la sua cittadina, distesa come una murena stanca lungo il mare, la chiesa color sabbia, le stradine intricate, le case a due piani con le finestre chiuse — la città dove non succedeva mai nulla.

Arrivò in piazza molto stanco. Stanco oltre ogni misura, ogni osso del suo corpo gli doleva e rimproverava questa vita, che scorreva pigramente sotto il pallido sole. Indossò il suo costume da pagliaccio e posò i palloncini sulla panchina, borbottando:

«Non è vita, è un sacco di pietre… Ovunque c’è confusione, incubo e caos».

Una ragazzina con dei fiocchetti rosa si fermò e lo fissò intensamente. Alessandro avrebbe voluto risponderle con un sorriso, mostrarle un palloncino rosa come i suoi fiocchi, ma non ne ebbe la forza. Guardò la ragazzina aggrottando le sopracciglia e lei fece un passo indietro.

Mano a mano la piazza si riempì di gente. Alessandro desiderava sempre di più che i bambini se ne andassero, ma ne arrivavano ancora. La gente si avvicinava a lui, gli chiedeva qualcosa, qualcuno comprò persino due palloncini, ma lui voleva solo una cosa: essere lasciato in pace. Quando il sole cominciò a tramontare, raccolse le cose rimaste invendute e si incamminò verso casa, incurvandosi e trascinando i piedi. Gli sembrò di sentire delle risate alle spalle. Fu sicuro che tutti ridessero di lui e non si sbagliava: era, dopotutto, un pagliaccio, non importava che lui stesso non stesse ridendo. Peccato che qui non piaceva a nessuno… Camminava e borbottava:

«Ridete per un saluto! sono un pagliaccio triste, è molto più divertente così! ridete per favore! ridete quanto volete! ridete e vivete la vostra vita al massimo! solo io, solo io…»

Improvvisamente un nodo gli strinse la gola, gli vennero le lacrime agli occhi, ma andò avanti, sempre più veloce… Arrivò al punto vicino alla sua casa. Una luce brillava attraverso la finestra socchiusa, come se qualcuno lo stesse aspettando, come se qualcuno avesse bisogno di lui. Nell’oscurità crescente vide di nuovo il bucato appeso al balcone: un bucato nuovo, naturalmente, quello precedente già si era asciugato con quel caldo. Ancora una volta rimase stupito, non aveva mai visto nulla di simile in casa: pantaloncini da mare, lenzuola e federe a righe, e al centro pendeva un unico asciugamano blu con una scritta rossa: “Tutte le madri fanno figli bellissimi, ma mia madre ha proprio esagerato”.

Alessandro salì le scale e aprì la porta. Sua moglie, come sempre a quell’ora, stava seduta accanto al televisore, con le mani stanche e afflitte dai reumatismi, sulle ginocchia. Sembrava guardare una soap opera, ma non guardava veramente quella, ma il muro dietro lo schermo del televisore, pensando che era passato un altro giorno, un altro giorno senza il loro figlio morto, e che non le fosse rimasto altro da fare che andare al cimitero e lavare le sue cose, lavarle e asciugarle, lavarle e asciugarle, lavarle, asciugarle…

editing di Giulio Frangioni.

Leggi anche…

Deridete
Manuale di guerriglia urbana per ragazze interrotte
Tre