un racconto di Davide Rigiani, tutte le fotografie di Alice Muratore.
Il grande ru, passando, non lo aveva visto. Fu l’aoao, che in quel momento sonnecchiava sotto una delle tante ascelle del ru, a notarlo per caso. E muggì. Il ru si fermò. L’aoao orientò una specie di antenna, e l’agitò. Alcuni tra gli elementi che componevano la parte alta del ru si scambiarono di posto. Poi, girando su sé stesso con un movimento elicoidale che oscillava leggermente sull’asse, cominciò a ridursi in altezza. Quando fu alto meno della metà di prima si fermò. Si inclinò in avanti e srotolò sul terreno una sua appendice articolata che terminava in una sorta di trombetta. Mosse la trombetta sopra le margherite e le foglie secche, scandagliava il terreno. L’aoao nel frattempo si era calato lungo il ru, spenzolandosi tra gli arti e le varie propaggini in movimento, come se si facesse strada tra i rami di un albero. Arrivò fino a una spanna da terra e poi si fermò. Appollaiato sull’unghia di un alluce peloso del ru, protese nuovamente la sua antenna e nuovamente l’agitò. All’estremità dell’antenna si gonfiò un bulbo di consistenza gelatinosa, attraversato da venature livide. Il peso incurvò l’antenna, e poi sul bulbo si annerì una pupilla. L’aoao rivolse il suo nuovo occhio su di un punto preciso. Il ru avvicinò la sua trombetta.
Tra le frasche e l’erba umida riconobbero un topolino di campagna.
Uno dei mantici membranosi che il ru aveva messi in fila sulla schiena come vertebre si contrasse e spinse fuori da una delle sue bocche un fischio che forse era una celebrazione. L’aoao invece non si mosse. Borbottava cose ed esaminava il topolino con il suo occhio. Il ru ritirò l’appendice a trombetta e la sostituì con un’altra, più simile questa volta al pistillo di un fiore, e con questa tornò a interessarsi del topolino. Era già capitato che si imbattessero in topi e topolini. Ma da qualche settimana le temperature andavano abbassandosi e si vedevano sempre più di rado. Vivevano perlopiù in buche tra le radici degli olivi, e si affrettavano tra la vegetazione. Di tanto in tanto li si poteva sorprendere mentre percorrevano il lato lungo della geometria, e allora rimanevano esposti per qualche momento. Erano piccoli e svelti e non si lasciavano avvicinare. Qualche volta però l’aoao era riuscito a osservarli, non visto, guardando dentro all’espressione della similitudine.
Questo topolino in particolare non sembrava in condizione di scappare. Aveva un orecchio parzialmente reciso, ma, tolto questo, non sembrava ferito. Nondimeno si rotolava sulla schiena, non camminava bene, si sbilanciava e cadeva su un fianco, e poi rifaceva tutto da capo. L’aoao rivolse l’occhio al ru, il quale di occhi non ne aveva, ma a ogni modo i due parvero intendersi. Il ru chinò sopra al topolino la sua ingombrante massa fino a farla scricchiolare. Poi, con la punta sensibile del pistillo, gli sfiorò, un po’ incerto, la schiena. Il topolino si paralizzò. Con le zampette protese e con l’occhio fermo, aspettò di morire. Il ru lo voltò facendo molta attenzione, gli accarezzò il pelo sulla pancia bianca. Il respiro gonfiava e sgonfiava il topolino. Il ru lo voltò di nuovo. Infine, esalando un fischio languido, si fece indietro. L’aoao aveva sorvegliato l’intera operazione, e non sembrò essersi accorto che era terminata. Gonfiò sovrappensiero una bolla da una narice che aveva sul dorso gibboso. La bolla si staccò. Indugiò un momento, si sollevò verso l’alto e poi si ruppe a contatto con un gomito piumato del ru. Il topolino riprese a muoversi come poteva. L’aoao rivolse al ru un breve muggito. Quindi risucchiò l’occhio, ritirò l’antenna, e si arrampicò su per il compagno per andare a scegliersi un’ascella all’ombra della quale riposare. Il ru si piegò nuovamente sul topolino e gli propose una mano con quattro tozze dita. Il dorso della mano era coperto di squame dall’aspetto legnoso, come una pigna, ma i polpastrelli e il palmo erano invece nudi e morbidi. Il topolino si mosse come per sfuggire, ma riuscì soltanto ad agitarsi senza ottenere nulla. Il ru lo raccolse con tutta la delicatezza che riuscì a inventarsi, e allora il topolino si strinse come poté all’estremità che gli veniva offerta. Poi, girando sul posto con un movimento elicoidale che oscillava leggermente sull’asse, il ru cominciò a sollevarsi.
Lo portarono nella geometria.
Il profilo della geometria svettava sopra gli olivi, ma non sopra gli eucalipti. Durante il giorno passeri e pettirossi vi si appollaiavano sopra, ma non vi facevano il nido. All’interno l’odore del ru stava prima di ogni cosa, e aveva profondità e stratificazioni aromatiche che all’aperto si perdevano. La luce era sbagliata. L’aoao e il ru deposero il topolino in un controsenso invisibile, e ce lo chiusero dentro. Poi si allontanarono. Il topolino per un po’ si agitò, poi si arrese. Trascorse del tempo. Il topolino coglieva rumori vicini, e dunque minacciosi, di animali nascosti, e poi rumori indecifrabili. Gli spazi della geometria a volte cambiavano di forma, o si spostavano. Piano e senza produrre alcun suono, scivolavano gli uni sugli altri, o anche gli uni negli altri. L’aoao e il ru tornarono. Il ru cambiò un aspetto del controsenso e lo risolse. Vi lasciò cadere dentro dell’erba e della terra che il topolino riconobbe. Lasciarono anche una macchia gialla e odorosa, che il topolino valutò come buona da mangiare, e una strana forma fatta di acqua da bere.
Dentro alla geometria le cose accadevano più velocemente del normale, o più lentamente. Solo quando gli spazi si combinavano in modo da lasciar vedere fuori, il topo poteva sapere se nel mondo era giorno o notte. Altre volte vedeva il ru e l’aoao che dormivano. Sulla cima al ru crescevano frutti di forma oblunga, rosati e fragili, e se era una delle volte in cui il tempo passava più in fretta il topolino poteva vederli gonfiarsi, e i loro colori saturarsi. Di tanto in tanto l’aoao, mentre il ru dormiva, sollevava la sua antenna e gonfiava l’occhio, che al buio rivelava una tenue luminescenza, e poi saliva pigramente fin lassù. Superava i frutti ancora acerbi e quando ne trovava uno di suo gradimento lo fagocitava, divaricandosi con grande lentezza e poi richiudendosi sul frutto, inglobandolo per intero. Quindi se ne restava lì, gonfio e fermo, per un po’. Dalla narice sul dorso gonfiava bolle e bollicine che volavano via. Con l’occhio osservava il topolino.
L’equilibrio del topolino migliorò. Se da principio teneva la testa sempre inclinata da una parte e si spostava in modo faticoso, spingendosi obliquamente, un po’ alla volta riuscì a correggersi. I suoi gesti si fecero meno spaventati. Mangiava. Era ancora lontano dall’assomigliare a quei topolini acrobati che ogni tanto attraversavano l’espressione della similitudine, ma forse sarebbe stato in grado di arrangiarsi. L’aoao e il ru portarono il controsenso all’aperto. Lo posarono per terra e di nuovo lo risolsero. Si fecero indietro. Il topolino rivide l’orizzonte dell’erba. Era mattina presto. Levò il naso, annusò le direzioni. Misurò le alternative della vita con la punta delle sue vibrisse, con le mani e con i grani neri degli occhi. Non si mosse. L’aoao e il ru arretrarono un po’ di più. Aspettarono un po’ di più. Il topolino non se ne andava.
Allora richiusero il controsenso e lo riportarono con loro nella geometria.
L’aoao, per la prima volta, scese dal ru. Il contatto con la superficie della geometria gli staccò un lamento. Rabbrividì, borbottò. Si molleggiò sul posto per un momento. Poi, con un’improvvisa elasticità, si arricciò e rotolò via. S’infilò in uno spazio vuoto a forma di aoao, e lo spazio si chiuse su di lui. Il ru sollevò il controsenso invisibile con il topolino dentro e uscì.
Fuori la sua presenza zittì un’effervescenza di passerotti che si muovevano nella chioma di un olivo. Il cielo era incerto, ma probabilmente non sarebbe piovuto. Il ru cominciò a girare sul posto, aumentando sempre più in altezza, e in breve raggiunse quella che apparentemente era la sua statura massima. Quindi, esibendo uno sforzo per la prima volta, contrasse l’intera sua massa. Come una molla. Si trattenne per un momento, e poi si lasciò andare di colpo. Spalancò tre paia di grandi ali fatte di piume color nocciola, e da terra si staccò.
L’incedere contorto e macchinoso con il quale si muoveva sul terreno non c’era più, e così la gravità da pachiderma che di solito accompagnava i suoi gesti. Quello del grande ru era un volo facile. Dondolava un po’. Le tre coppie di ali sbattevano in modo indipendente le une dalle altre. Sfruttava le virtù di un qualche curioso equilibrio di forze che, quando necessario, il ru correggeva agitando pigramente, ora in orizzontale, ora in verticale, una pinna caudale a quattro lobi. Lasciava che arti, code e altre sue parti al momento inutilizzate ciondolassero nel vento. Sotto di sé, all’altezza del ventre, reggeva il controsenso. Lo teneva saldo per i lati con dita a ventosa. Il topolino aveva tanta paura. Volavano alti, sopra le cime degli alberi, e da lì lui vedeva la caduta. Ma vedeva anche i grandi prati, il fiume e cose che non capiva.
Toccarono terra. Il ru richiuse le ali, si accorciò, riprese il suo passo pesante. Entrarono in una geometria nuova. C’erano tanti odori sovrapposti, alcuni, molti, del tutto alieni. Il topo riconobbe l’odore della moltitudine e l’odore del luogo di transito, e dietro a tutto anche quello che forse era l’odore della malattia e delle cose morte, ma era talmente distorto che era difficile da dire. Il ru posò il controsenso e poi aspettò. L’aria si aprì e ne uscì un nuovo aoao. Ignorò il ru e rotolò giù per un piano inclinato. Fece un paio di giri intorno al controsenso e poi si fermò. Era simile all’altro aoao, ma erano diverse le proporzioni tra le sue parti. Aveva una narice sul dorso ma non aveva occhi. Da un orifizio gli crebbe invece una specie di becco telescopico, dritto e sottile come un ago, con il quale l’aoao prese a picchiettare sulle forme che aveva vicino, e le forme reagivano. Quando ebbe finito aprì il becco e fece uno strano verso, sorta di risucchio presto interrotto da un colpo come di singhiozzo. Il ru si destò dalla sua immobilità, aprì, tra tutte le bocche che aveva, quella più in basso, e srotolò una lingua pelosa che arrivò fino all’aoao. L’aoao ci salì sopra e si arrampicò su per il ru. Il controsenso intanto si era sciolto e il topolino era rimasto esposto. Si contrasse, ma era troppo impaurito per fare di più. Lo deposero sotto a una struttura illogica che in altezza superava persino il ru. Aveva luccichii che si scomponevano e si ricomponevano, e che la facevano sembrare una cosa vivente anche se non lo era. Si levò un suono rotondo che raggiunse una nota e poi la tenne ferma. Divenne presto facile da ignorare, ma solo al prezzo di perdere parzialmente i profili delle cose. Qualcosa roteava, dapprima piano, poi via via sempre più velocemente. Il topolino vide se stesso da fuori e da sopra. Non si riconobbe, ma si accorse di essere lui a muovere il corpo del topo che vedeva. Poi più niente.
Si svegliò nel controsenso invisibile e nell’odore del ru. La forma degli spazi in quel momento non permetteva di vedere fuori dalla geometria. Si sentiva il rumore della pioggia.
Una notte il ru dormiva, e una delle sue code più lunghe serpeggiando arrivava a lambire il controsenso. L’aoao la percorse fino in fondo come fosse un sentiero. Il topolino era steso su un fianco, sopra a dell’erba strappata nel prato. L’aoao levò l’antenna e al termine dell’antenna gonfiò, con quattro o cinque energiche insufflazioni, una palla. Non era il solito occhio gelatinoso, era una pallina opaca e arancione come sono arancioni le zucche. L’aoao la dondolò lentamente, prima da una parte e poi dall’altra. Poi la scosse, questa volta con piccoli colpetti bruschi, e la sfera risuonò come fosse piena di semi. Il topolino guardava il gioco dell’aoao e ascoltava. Di tanto in tanto contraeva appena le mani. L’aoao muggì, ma piano, per non svegliare il ru. Dondolò ancora la pallina a destra e a sinistra e poi la fece risuonare, e il topolino lo guardava.
Con le mani più delicate, tra le tante che aveva, il ru aveva fatto una coppa, e nella coppa teneva il topolino. Gli muoveva sopra l’appendice a trombetta dalla quale si spandeva un odore che rendeva l’aria più pesante e più leggera. L’atto di respirare consumava per intero le energie del topolino. Di lui, oltre a quello sforzo, non rimaneva altro. Sembrava persino più piccolo di quando l’avevano trovato. Aveva il pelo sciupato. L’aoao assisteva appollaiato su una sporgenza cartilaginosa del ru. Dopo un po’ si voltò e andò a cercarsi un’ascella sull’altro lato del compagno.
Il topolino s’inarcò con una forza improvvisa, sfuggì quasi dalle mani del ru che non se l’aspettava. E poi smise di respirare. Il ru lo tenne ancora per un po’. Così. Poi lo posò. Lo riportarono fuori, dove l’avevano raccolto. Lo lasciarono sull’erba. Dopo un po’ l’aoao e il ru andarono via.