


un racconto di Tommaso De Martino,
tutte le fotografie di Mercè Aragonès Mestre.

La ragazza col vestito bianco entrò facendo scampanellare la porta della bottega costituita da un solo e lungo vano; c’era una piccola vetrina adiacente l’entrata e in fondo — dove la luce esterna non arrivava — un vecchio dai capelli bianchi raccolti in una coda. Le dava le spalle mentre lavorava chino sotto la luce di una lampada.
«Buonasera», disse lei, ipotizzando che lo scampanellio non fosse stato udito.
«In cosa posso esserle utile?»
«Ho un orologio a cui tengo molto e che vorrei far riparare».
«Lo ha con sé?» chiese l’uomo senza interrompere il lavoro.
«Sì, l’ho con me».
«Se vuole essere così gentile da mostrarmelo», disse lui, posando i suoi attrezzi e ruotando di 180 gradi lo sgabello su cui sedeva.
«Oh, certo», fece lei come a scusarsi, e si decise a compiere quei passi che la separavano dall’orologiaio rovistando nella borsetta, «eccolo».
«Bella linea», commentò sistemandosi gli occhiali, «belle forme».
Sta parlando solo dell’orologio, vero? Pensò la ragazza mentre l’occhio sinistro si chiudeva e riapriva in un tic.
«Che problema ha?»
Sta sempre parlando dell’orologio, vero? Ripensò lei.
«Si blocca sistematicamente alle tre».
«Hmm, curioso. Posso?» chiese allungando la mano.
«Prego».
L’orologiaio se lo rigirò tra le dita capaci di soppesarne qualità e difetti, poi posizionò le lancette alle tre meno un minuto e diede un po’ di carica. La lancetta dei secondi rispose prontamente e lui iniziò a seguirne l’avanzare dietro due lenti non proprio pulite.

A volte un minuto può espandersi in eternità; sarà un pensiero banale ma era l’esatto stato della ragazza mentre osservava quell’uomo indugiare sulla sua verità.
«Infatti», confermò lui quando l’orologio segnò le tre esatte.
Un sorriso compiaciuto spuntò sul viso della ragazza per la prima volta da quando era entrata e forse per la prima volta nella giornata.
«Se la potrebbe cavare con una pulizia, se è fortunata e non c’è niente da sostituire; in ogni caso me lo deve lasciare».
«E quando potrei passare a ritirarlo?»
L’uomo gettò uno sguardo al tavolo da lavoro.
«Diciamo fra tre giorni».
La ragazza col vestito bianco lasciò un acconto e uscì dalla bottega.

L’orologiaio decise di sospendere quel che stava facendo spinto dalla curiosità di scoprire la causa di quel blocco sistematico alle tre. Prese un panno pulito e vi ripose l’orologio appoggiandolo sul piano di lavoro, spostò il braccio della lente d’ingrandimento fino a posizionarla sopra e cercò con la mano il cacciavite. Tastò e ritastò senza afferrarlo, e solo allora scansò gli occhi dalla lente per individuarlo, ma sul tavolo non c’era. Guardò a terra, sotto lo sgabello, si frugò nelle tasche, alzò lo sguardo sulla mensola di fronte dove teneva alcune vecchie foto incorniciate, ma niente, il cacciavite non si trovava ed era inutile cercarlo; come diceva sua madre: certe volte ci si mette il diavolicchio.
Aprì la cassettiera che conteneva gli attrezzi, recuperò un altro cacciavite e tornò al tavolo da lavoro dove rimase per quasi un’ora senza alzare la testa. Che l’orologio fosse sporco e gli ingranaggi avessero bisogno di una ripulita e un’ingrassata era evidente, ragion per cui l’orologiaio lo richiuse convinto della buona riuscita. Ma si sbagliava: l’orologio si bloccò ancora alle tre.
Aggrottò la fronte: alla soglia dei settant’anni doveva ancora imparare a muoversi tra le vane aspettative di una giornata, come sperare d’incrociare la bella e avvenente vicina uscendo di casa, trovare nella cassetta della posta una lettera scritta a mano e non solo bollette e pubblicità, mangiare al bar una brioche che non fosse bruciata e far scoccare la mezza prima di farsi il primo quartino; oltre a non perdere la speranza che quella telefonata che aspetta arriverà.
Vanni — questo il nome dell’orologiaio — non sentiva più sua figlia Ilenia da cinque anni. Non aveva mai approvato la relazione di lei con un cinquantenne, e alla festa di laurea il discorso era finito di nuovo lì: aveva già alzato il gomito eppoi i toni, e disse qualcosa che non doveva ma se ne pentì subito; Ilenia però ne rimase così tanto ferita da non cercarlo più. Vanni invece lo aveva fatto, l’aveva chiamata più volte e lei non aveva mai risposto, così come aveva ignorato i messaggi. Quei cinque anni li aveva passati in compagnia del ticchettio degli orologi e il lavoro l’aveva aiutato a non pensarci continuamente.

Nonostante l’esperienza, ricadeva sempre nel vecchio errore di non dubitare mai delle proprie convinzioni, e in alcuni casi ci sta ma nel lavoro no, se per non fermarti un minuto a riflettere ne perdi dieci dopo; come adesso che gli toccava riaprire l’orologio. Cacciavite alla mano si diede subito da fare. Smontò, osservò, esaminò sotto la lente ogni ingranaggio e rondella per scoprirne la pecca, ma non notò nulla di significativo, nessun motivo evidente che potesse causare il problema. Pensò allora che dove non arrivava l’occhio poteva arrivare l’aria. Scostò la lente d’ingrandimento dal viso e con mano sicura andò verso il cactus albino accanto al quale appoggiava sempre la bomboletta d’aria compressa. La bomboletta non c’era. Sbuffò. Si allungò verso lo scaffale e prese una bomboletta nuova, vi conficcò la cannuccia e la svuotò a più riprese sull’orologio. Poi lo avvolse in un panno scamosciato per asciugare la condensa, formatasi sul metallo e se lo rigirò tra le mani per un po’ prima di riporlo. Gli era sembrato di sentir squillare il cellulare. Invece no.
Tornò al lavoro e questa volta non ricompose la cassa; sistemò le lancette alle tre meno un minuto, diede carica e attese coi gomiti puntati sul tavolo come tralicci a sostenere il viso tra le mani.
Aveva sempre immaginato i secondi come gocce di pioggia nel momento esatto in cui si schiantano; a volte piove su terreni asciutti, altre in pozzanghere cittadine — pensava Vanni, tornando al passato, percorrendo il senso inverso delle lancette. Che puntuali, sistematicamente alle tre, puff!
Si grattò il sopracciglio col pollice, serrò i denti a bocca chiusa e per Vanni la questione divenne una sfida personale. Prima di rimettersi al lavoro però voleva staccare un attimo, riposare un po’ gli occhi, bere un bicchiere d’acqua e schiarirsi le idee. Si alzò dallo sgabello e prese la bottiglia d’acqua che teneva sulla mensola, insieme a un bicchiere. Se ne riempì mezzo e la bevve in tre sorsi, poi li rimise a posto e puntò alla piccola poltroncina che aveva sistemato nell’antibagno. Ci aveva anche dormito qualche notte che s’era attardato nel lavoro, ma non capitava da tempo, e ora che voleva soltanto chiudere gli occhi per qualche minuto e schiarirsi le idee, tra i pensieri si insinuò la sensazione che avesse trascurato un dettaglio, che qualcosa mancasse all’appello.

La proprietaria dell’orologio tornò dopo tre giorni come concordato. Indossava dei jeans e una maglia rosa con le spalline a sbuffo, non più il vestito bianco, e quando entrò nella bottega notò subito le pareti spoglie — pochi orologi appesi qua e là e un paio di pendole; un’immagine ben diversa da quella di tre giorni prima, ma non se ne stupì, l’attribuì anzi a una svendita. Buon per lui, pensò, e salutò.
«Buonasera».
L’oscurità della bottega era invece la stessa. L’orologiaio, in fondo alla lunga stanza, aveva piazzato davanti al tavolo da lavoro la poltrona che stava nell’antibagno e vi stava seduto come in attesa.
«Buonasera, la stavo aspettando da tre giorni».
Questa precisazione non piacque alla ragazza e le suonò strana; sarà stato sufficiente ripulirlo, per questo mi aspetta da tre giorni, pensò e cambiò discorso.
«Vedo che gli affari vanno bene: ha venduto un bel po’ di orologi», disse lei indicando le pareti.
«Oh già», fece Vanni, come se gli avessero ricordato un appuntamento mancato, «dovrei chiederle i danni, signorina… ma vallo a spiegare».
La ragazza, che era un’avvocata esperta in recupero crediti, si sentì indebitamente tirata per la giacca dalle parole dell’orologiaio.
«Forse mi ha scambiato per un’altra persona».
«No, se è venuta a ritirare un orologio che si blocca sistematicamente alle tre», e si alzò, dirigendosi verso lei con un sacchettino di stoffa in mano, «ma stia tranquilla, non c’è risarcimento possibile a sparire. Almeno credo…»
Fu tentata di precisare che in effetti credeva male, ma qualcosa le suggerì che fosse meglio non farlo.
«Lo sa che l’orologio da polso fu concepito per la donna? L’uomo aveva il proprio inseparabile orologio da tasca. E fu proprio una donna a idearlo», Vanni si faceva sempre più vicino e la ragazza sempre più inquieta, «fu una nutrice, che per lavorare meglio pensò di legarsi al polso un orologio da taschino con dei semplici lacci: un’idea rivoluzionaria, capace nel suo piccolo di cambiare il mondo, come solo le donne sanno fare, nel bene e nel male».

La ragazza fece un passo indietro, cauta, e mise una mano avanti.
«Non tema, non sono matto e non voglio farle del male. Ho una figlia della sua età, anzi lei un po’ me la ricorda», ammise Vanni inclinando di lato la testa per osservarla anche da quella prospettiva, «quand’era piccola le raccontavo la storia della nutrice prima di farla addormentare; ogni sera inventavo nuove avventure per la nutrice e il suo magico orologio da polso».
A sentirlo parlare così la ragazza si tranquillizzò, anche se ancora non capiva bene cosa aspettarsi.
«È proprio una bella storia… E saranno state belle anche le storie che inventava per sua figlia; scommetto che alla nutrice le aveva anche dato un nome».
«Oh sì», si illuminò Vanni, «mia figlia lo aveva preteso, e lo scegliemmo insieme».
Gli occhi del vecchio brillavano di piccoli punti luce mentre si alzavano verso il soffitto e ancora più in là.
«E quale?» chiese sempre più interessata.
«Vittoria: un nome da regina», rispose Vanni, che da vecchio anarchico alle regine non aveva mai creduto, ma quando la figlia aveva detto che quello era un nome di buon auspicio per tutte le donne che soffrivano, non aveva saputo dire no: Ilenia aveva capito come prenderlo fin da piccola. E mentre Vanni si rituffava nel passato, la ragazza si chiedeva il perché le stesse raccontando tutto ciò.
«Anch’io mi chiamo Vittoria», ammise con giustificato ritardo.
Vanni ne sorrise.
«Curioso».

Poi rimise a fuoco la questione.
«Le restituisco il suo orologio», disse mettendole in mano un sacchettino di velluto viola, «e anche l’acconto; è tutto qui dentro. Mi dispiace, ma era dovuto».
Vittoria era sempre più confusa. Il messaggio dell’orologiaio era chiaro, ma il finale sibillino non le piaceva, come non le piacevano i finali aperti nei film, nei libri e nelle storie.
«Scusi, che significa che mi restituisce l’acconto?»
Lui fece spallucce.
«Non mi sembra giusto tenermi i suoi soldi per niente».
«Mi sta dicendo che non è riuscito a ripararlo?»
Vanni voleva ritornare alla poltrona e si era già rivolto in quella direzione, ma tornò a guardare il viso di quella ragazza che gli ricordava Ilenia.
«Ha notato quanti ne mancano, eh?! Non poteva sfuggirle», fece lui indicando le pareti, lì dove gli orologi avevano lasciato il segno della loro esistenza in tenui aloni di circonferenza, «ma non li ho venduti; sono spariti, e con loro buona parte dei miei strumenti, nonché la foto di mia figlia che tenevo su quella mensola».
Vanni indicò con l’indice il punto esatto.
L’ultimo orologio a cucù rimasto in bottega batté le diciotto con sei raccapriccianti rintocchi e lui pose una domanda che sembrava banale.
«A lei non è mai sparito nulla?»
Vittoria inarcò le sopracciglia.
«Voglio dire: avrà provato a capire se l’inceppamento fosse un caso oppure no, avrà messo più volte le lancette alle due e cinquantanove per vedere se continuava a bloccarsi proprio a quell’ora, altrimenti non avrebbe usato la parola sistematicamente quando lo ha portato qui; e quindi riformulo la mia domanda: non le è mai capitato che le venisse a mancare qualcosa quando le lancette si bloccavano alle tre? Perché a me sì», fece lui aprendo le braccia, come ad arrendersi al vuoto.

Vittoria non aveva perso tempo a fare troppe verifiche, come ipotizzava l’orologiaio, giusto un paio di prove prima di portarlo lì. Non ci capiva più nulla di tutta questa storia, però alla mente si affacciò il ricordo di quella volta che Ettore, il vicino del piano di sotto che arrotondava la pensione con piccoli lavoretti, lo riconsegnò a sua mamma tutto agitato, farneticando che portava male e che era meglio non dare carica a quelle lancette, perché ogni volta che si fossero bloccate qualcosa si sarebbe perduto per sempre, in un puff! Rivide Ettore mimare con le dita l’atto di scomparire, come capitava ai cartoni animati quando scomparivano in una nuvoletta di fumo, e sua madre accompagnarlo fuori dalla porta perché, disse, stava spaventando la bambina; risentì la voce di lui che la pregava di ascoltarlo, perché l’aveva visto accadere sotto i propri occhi, aveva visto scomparire il telecomando della TV che teneva sulla coscia proprio nell’istante in cui le lancette si fermavano.
Vittoria non si era stupita del riaffiorare di quel ricordo. Le era già successo nelle ultime settimane, dopo il funerale della madre, riponendo le sue cose o ripiegando i suoi vestiti per farne un pacco da donare alla parrocchia. Per sé aveva tenuto alcune giacche dal taglio vintage, di cui una in pelle, rossa, che non le aveva mai visto indossare; e fu provandola che trovò l’orologio. Era nel taschino interno, lasciato lì senza cura, e quando lo riconobbe qualcosa si incrinò sul parabrezza della sua razionalità. La madre le aveva sempre detto che l’orologio, insieme ai pochi gioielli che possedeva, se l’era portato via il padre quando le aveva abbandonate. Lo aveva anche chiamato ladro, oltre che traditore e miserabile, ma quell’orologio ritrovato che stringeva tra le dita, testimoniava che forse le cose non erano andate come la madre asseriva. Dove stava la verità?
Si era posta questa domanda, e se la poneva di nuovo in quella bottega.
«Signorina, si sente bene?»
Vanni l’aveva vista scolorire.
«Le prendo un bicchiere d’acqua», aggiunse subito.
Lei trascinò un grazie alle labbra e si lasciò accompagnare sulla poltrona.
«La prego, si sieda, le porto dell’acqua».
Vittoria l’osservò indaffararsi per cercare un bicchiere, aprire e chiudere ante e sportelli senza trovare nulla e poi prendere una bottiglietta da 50 ml da un frigobar e tornare con quella.
«Mio padre», disse solo questo quando lui gliela porse, rispondendo alla domanda che Vanni le aveva fatto poco prima dei sei raccapriccianti rintocchi dell’orologio a cucù; e andò via senza bere, insieme a qualcosa che è impossibile aggiustare.


editing di Alessandro Tesetti.
