Quello che serve per salvarsi

un racconto di Giorgia Mosna,
tutte le fotografie di Costanza Scaffidi.

Quando la terra tremò avevo sedici anni ed ero al cinema. 

C’ero andato con mio fratello. 

Ero felice. 

Bramavo stare con lui, e feci finta di non vedere come al botteghino il suo corpo si flettesse in preda a un nervosismo nuovo, che non riconoscevo e anche dopo, quando fummo poi seduti: dimenticai in fretta come non la smettesse di scompigliarmi i capelli, un gesto che non gli apparteneva esibito così, per fingere confidenza, mentre furtivamente si guardava intorno cercando qualcuno. Schioccava le dita e mi sorrideva, mi dava un colpetto sulla spalla o sulla mascella. Poi roteava gli occhi e cercava. 

Non me. Ma non aveva importanza. Eravamo insieme. Bastava. 

Non ho elementi per ricostruire la prima scossa, nemmeno in ricordo. 

Ero assorbito dai corpi che si muovevano sullo schermo e non mi accorsi di nulla. Del resto, non deve essermi sembrato strano che un fremito corresse tra gli spettatori, né che le poltrone si spostassero tremando, disponendosi oblique rispetto alla struttura ortogonale del soffitto. Semplicemente, mi tenni più forte al bracciolo, passandomi ripetutamente la lingua sulle labbra per concentrarmi meglio. Poi la pelle nuda della donna in primo piano si accartocciò. Si sparse un odore acre di fumo e il bianco tornito di quella spalla nuda si aprì e si ritrasse in un fremito, fuggendo dal centro, un’esplosione di celluloide che si rattrappiva, fagocitando nel suo scricchiolio gli ultimi gemiti gutturali che quel giorno mi fu dato di sentire. 

Questo particolare credo di averlo aggiunto io in seguito, a furia di ricordare. Non posso aver avuto la lucidità di ascoltare davvero, ma nel ricordo succede così, si integra quello che mancava. Del resto, mi piace ancora oggi l’idea dell’orgasmo raggiunto in concomitanza alla scossa che gettò tutti nel panico. Voglio dire: tutti gli altri quando avranno iniziato ad urlare? Si saranno alzati in piedi in un sol colpo fin dall’inizio, a giudicare dalle testimonianze, ma io di quella sera non ricordo rumori. Era silenzio, all’inizio, e io tutto dentro alla pelle color ruggine, della donna che mi sovrastava. Le labbra maestose, semi dischiuse, le due mezzelune degli incisivi lustri che indugiavano nella carne. Mi distrassi dallo schermo perché un filo di calcinacci mi crollò, sottilissimo, perfettamente perpendicolare, sul volto, appena sotto la rima palpebrale. Io mi toccai dove mia madre mi aveva sempre disegnato la lacrima sognando ogni anno, inspiegabilmente, di convertirmi in un triste Pierrot; poi l’odore di plastica bruciata si mescolò per un istante a quello che ricordavo del suo fiato, un misto di saliva, sigaretta al mentolo e aroma di giglio, chissà perché solo allora, io alzai gli occhi, vidi il soffitto cedere al centro, e una crepa partire dalla plafoniera del lampadario pacchiano per aprirsi con un guizzo cosciente e ferino fin sopra dove stavamo noi. La mano di mio fratello si abbatté sulla mia testa prima o dopo lo schianto delle gocce di cristallo e catene d’ottone che si sganciavano tintinnando disperatamente per rimanere poi sospese nel vuoto della sala? Non ricordo, anche se so che in quel colpo qualcosa tra noi si era rinsaldato, perché picchiarmi era quello che faceva davvero volentieri, e immaginare che attraverso quel gesto lui  volesse salvarmi fu  –  ed è ancora oggi –  un corridoio di salvezza. 

«Muoviti cretino, non vedi che crolla tutto?»  mi disse, e io fui costretto a girarmi.

Cercò di trascinarmi con sé? Mi piace credere che abbia cercato di prendermi la mano, stringendo nella sua – fredda e sudata – il vuoto perché nella mia scena ideale, sarei stato io a non voler essere spostato dalla mia posizione privilegiata di osservatore. Mi piaceva assorbire ogni particolare. Il suo schiaffo non mi aveva dato fastidio ed è così che mi consolo: pensando che Giuseppe abbia provato invano a smuovermi dalla poltroncina, che mi abbia tirato a sé prima che tra noi si aprisse il baratro e lui rimanesse intrappolato nell’immagine che ricordo. Questa, senza dubbio, è vera: lui che scavalca tutti.

 Era scappato con le gambe lunghe che si ritrovava, ignorando le donne con le labbra turgide di rossetto, le vecchie nascoste nei colli di visone, i vecchi con i loro occhiali di tartaruga e le lenti scure. Quelle sono rimaste a me. Lui invece si spinse in avanti facendosi largo senza riguardo, appoggiando le scarpe al rivestimento di velluto bordò delle poltroncine, fregandosene se erano libere o occupate. Si arrampicò agilmente con il solo scopo di salvare sé stesso. Così lo ricordo, e questo è ciò che rimane, facendosi largo in me per ferirmi sempre. Lo persi di vista nel buio, ma se chiudo gli occhi posso immaginarlo ancora e ancora, e senza fatica: eccolo lassù che si aggrappa alle mani dei vecchi, ecco che con i loro corpi si fa scudo, ecco che travolge intravedendo oltre le loro sagome di cartone la luce, ecco che li getta di lato facendoli cadere. Ecco le sue mani, tanto simili alle mie le falangi che ha stretto per farsi strada. 

La sua fuga durò un secondo.

Fu fuori prima degli altri e sicuramente non mi venne a cercare più.

Io rimasi lì, in piedi. In fondo lo conoscevo bene da prima e quello che accadde quel giorno fu solo un sigillo.

Il vociare selvaggio degli altri mi si dischiuse per questo, perché lui sparì nel buio. 

Sentii tutte assieme le parole scomposte e cariche di urgenza, le urla delle donne a stento trattenute le sentii così: non con le orecchie, ma risuonanti nella mancanza di lui, nello spazio che mi aveva spalancato andandosene, perché mi aveva abbandonato e tutto piangeva in me attraverso quello sfacelo scomposto.  

Qualcosa della struttura schiantò e ci fu un breve silenzio, eravamo attoniti tutti, e io presi coscienza di un sordo ronzio, che altrimenti non sarei mai riuscito a identificare. Era dappertutto e intendo: non solo nelle orecchie, ma nel corpo, nelle piante dei piedi, nelle ginocchia, su per i muscoli delle gambe fino all’inguine, la pancia ne era piena, tutti i diaframmi del corpo erano percossi dal tambureggiare millimetrico e minaccioso di un linguaggio in codice che ci metteva tutti in allarme. Non lo avevo mai sentito, così basso e disturbante; anche oggi mi chiedo cosa fosse, forse, penso grattandomi oziosamente la fronte davanti a questa inutile testimonianza da finire, era davvero il rumore delle placche sotterranee su cui fino a quel giorno avevamo organizzato, ognuno, l’ordine circoscritto e perfetto delle nostre vite. Si erano messe a muoversi una sull’altra e quello era il risultato.

Sebastiano invece se lo erano dimenticati tutti. 

Era in fondo alla rampa, nell’unico punto della sala in cui potevano essere messi quelli come lui. 

Mi mossi contro la folla e diventai invisibile. Quelli che scappavano mi passarono attraverso, sovrapponendo al mio il loro volto di terrore. Furono la vista delle orbite deformate, delle guance trafitte dalla tensione, delle labbra impegnate nel mormorio della preghiera e dello scongiuro, furono quelle pupille cieche a spaventarmi quasi più del terremoto. Un vecchio mi colpì in piena faccia con un pugno e per farsi largo mi scaricò una gragnola di calci sullo stinco. Io mi spostai di lato, scavalcai come mio fratello le poltrone. Erano tutte vuote, e per far veloce ci appoggiai le stesse suole con cui avevo calpestato il piscio e la sporcizia di fuori.

Sebastiano tremava. Quando mi chinai per raccoglierlo chiuse di scatto le braccia ossute attorno alle mie spalle. Mi strinse a sé, costringendomi a inchinarmi in una posizione faticosa e innaturale per afferrare le ruote della sedia a rotelle. Sebastiano puzzava. Forse se l’era fatta addosso dalla paura, o così pensai sul momento, perché poi nel ricordo quell’odore si amplifica in una nota inafferrabile di fiori.

«Ti porto fuori io», dissi.

Lui mi rispose. 

Parlò.

Uguale che poi la signora Lucia mi abbia rinfacciato che Sebastiano non poteva aver parlato quel giorno, come del resto mai lo aveva fatto con lei in venti anni che lo aveva avuto sotto gli occhi. Secondo lei dovevo essermi inventato tutto per coprire la mia vigliaccata di essere scappato fuori dalla sala da solo, come del resto aveva fatto Giuseppe. Giorni dopo, al funerale, me la ritrovai con la bocca spalancata addosso, e so che dovrei ricordarla con pena, dirmi che aveva perso il figlio che amava, ma io l’immagine che ho impressa è quella delle due file disordinate di denti accanto alla lingua grigia e vischiosa che si contorceva per dirmi le sue offese. 

«Sei uguale a tuo fratello!» aveva detto; l’alito le sapeva di carogna, ma lo stesso io le presi le mani e le raccontai. 

Gli ultimi momenti specialmente, però, lei non li ha mai voluti sentire.

Sebastiano mi disse chiaramente di lasciarlo dov’era, lo disse con voce chiara. Chiamandomi per nome mise a tacere il ronzio della terra in movimento e tenendomi stretto mi disse di lasciarlo lì, lui, povero storpio come era, e stanco; al posto del suo corpo disgraziato prendessi piuttosto l’uomo riverso accanto ai suoi piedi. 

«Prendi lui», disse, premendomi le nocche screpolate conto il volto per spingermi a guardare. 

Certo che provai a gridare, chiesi aiuto, mi augurai come che mio fratello si fosse fatto venire lo scrupolo in estremo, proprio in fondo allo stradone: se non per me magari per nostra mamma, o magari per la paura delle botte di papà. Certo gliele avrebbe date sapendo come mi aveva abbandonato. 

Ma nessuno si girò.

«Prendi lui», mi disse  Sebastiano, e so per certo che allora la sala era vuota, e immagino che ci fosse luce, nonostante il buio che doveva esserci calato intorno.

Toccai l’uomo con la punta del piede. 

Speravo fosse morto, che non si desse il caso di compiere una scelta, perché era chiaro che la crepa sotto i nostri piedi si apriva, e che mai sarei riuscito ad andare e tornare due volte.

Invece quello si girò su un lato. Teneva l’avambraccio stretto al busto e si lamentava.

Il cappello che aveva calato in testa cadde all’indietro scoperchiando una chioma corvina tutta inanellata. La faccia era bianca di polvere e calcinacci, però il rossetto si vedeva bene. 

Guardarlo mi diede l’immediata sensazione di soffocare. 

Mi staccai da Sebastiano senza più nessuna tenerezza, con l’unico bisogno mio di pulirmi dal volto quella cenere che mi era scesa negli occhi; presi a passarmi le mani sulla fronte e sulle guance, più e più volte, senza risultato, e fu quello il momento in cui persi letteralmente la testa, quando per un attimo pensai di non riuscire a respirare più, e mi accorsi che tutte le linee da dritte si erano fatte sbieche, e che la folla sciamando via, tutta scomposta per la propria salvezza mi aveva lasciato indietro. Mi sentii scosso da quella stessa furia selvatica di mio fratello, e lo rividi, lo sentii in me proiettato nella speciale sala cinematografica che quella sera si spalancò nei miei occhi apposta per ricordare questo momento, che lui mi aveva tradito e mi aveva lasciato così, solo al punto che mi sembrava di essere nudo. Percorsi con clemenza il balenio del suo corpo atletico avvinghiato ai corpi grigi e malfermi dei vecchi: meritavano tutti di morire, aggregati e compatti dell’uscita di sicurezza come erano, i volti resi indecenti dal panico che si allargavano a favore della vampa fulminea della camicia bianca di lui.

Sarebbero tutti morti lo stesso, e in fin dei conti, non era forse vero che solo noi avevamo il diritto di salvarci?

Era umano, volersi salvare.

«Aiuto…», disse l’uomo a terra dimenandosi. Si portò il polso contro la tempia, mi mise a fuoco.

Vidi che aveva gli occhi azzurri e qualcosa si mosse in me automatico. 

Mi chinai. 

Gli pulii il volto.

Sotto i solchi lasciati dalle mie dita le guance emersero seriche, rosa. 

Mi prese la mano rivelando le unghie laccate di rosso che mi fecero voltare: Sebastiano mi guardava tranquillo. Sorrise e dalla bocca gli uscì un filo di bava, che si allungò fino a toccare il pavimento crepato.

«Ti prego!» disse, e la terra tremò più forte. La carrozzina ondeggiò rischiando di cadere. Nell’atrio qualcuno emise un grido strozzato, e Sebastiano cominciò a dimenare le sue ali spezzate, interrompendo con le mani l’unico debole fascio di luce che ancora passava sopra le nostre teste senza colpirci. 

Non sapendo che fare mi rifugiai in un ricordo. Lo pensai in un unico istante, anzi: venne lui da me, intero.

Eravamo a casa di nonna. Tenevamo aperto lo sportello della stufa per osservare i bagliori intermittenti delle braci: quelli più dolci e quelli animosi scorrevano lungo il profilo di Giuseppe, che in quel modo risultava tutto illuminato, chiaro e poi scuro e poi di nuovo chiaro…ogni tanto Giuseppe sollevava gli occhi su di me, e poi si avventava sulle pagine del mio libro preferito: le appallottolava e le buttava nelle fiamme, guardandomi ogni volta per vedere come reagivo.

Nella canna fumaria il calore saliva rotolando selvaggio, e la latta del camino tremava.

Più avevo paura, più Giuseppe rideva. 

Più lui rideva, più io ero felice.

«Ancora! Ancora!» imploravo, ed era solo per farlo contento, perché mi guardasse ancora, anche se erano mostri e demoni quelli che immaginavo risalissero nel tubo e che avrei poi spento da solo, mentre sognando mi sarei pisciato addosso nel letto. 

Mi alzai.

Il pavimento era uscito dall’asse.

Afferrai le mani di Sebastiano e gliele richiusi sul petto, strette come quelle dei polli al mercato. 

Promisi che non lo avrei detto a nessuno, e poi gli riavviai i capelli a scodella che gli ricadevano folti e dritti sulla fronte esageratamente allungata.

«Tua mamma poteva anche tagliarteli un po’ meglio, ‘sti ciuffi…» gli dissi e anche se come ho già detto la Signora Lucia si ostinò a trascinarmisi dietro ogni volta che passavo davanti all’uscito di casa, ogni volta rinfacciandomi di non averle riportato la creatura, ogni volta maledicendomi per aver scelto quella sbagliata, urlando parole che salivano tra i panni stesi di traverso alle case, su, fra canottiere e pantaloni fino al cielo, io lo so, so che Sebastiano parlava, e che quel giorno disse cosa sceglieva per sé e mi disse grazie, lo so, con una voce figura e il fiato che odorava di buono. 

Incastrai le ruote della carrozzina in modo che non si muovesse più in basso di dove già stava, poi mi inginocchiai e mi caricai il femminiello sulle spalle, e mentre salivo facendo attenzione a non cadere, ritrovai mio fratello, non fuori, ma dentro, che mi guidava, dicendomi forte nelle orecchie quello che serviva e che lui conosceva bene, evitare di inciampare nei calcinacci che il terremoto aveva disseminato tutto intorno. Soprattutto, diceva lui, che mi pareva di averlo a fianco mentre il varco si avvicinava, dovevo imparare a rimanere in equilibrio, tenere il corpo aperto e spalancato quale fosse il peso, perché in chi è vivo il peso cambia in ogni momento.

editing di Alessandro Tesetti.

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