


un racconto di Maddalena Crepet,
tutte le fotografie di Ludovico Succio.

Alla fine per stare bene avevo speso più di Fiorello nei tempi d’oro. Una botta perenne che mi avrebbe fatto dimenticare davvero tutto. Forse anche di chi ero. Di chi ero stata. Qualsiasi cosa guadagnassi, veniva trasferita in tempo zero nelle tasche di terapisti, maestri di yoga, maestri di vita, maestri di bottega, maghi, stregoni, lettori di fondi di caffè, lettori di carte, di mani, di braccia, di qualcosa. Mi bastava stare bene. Il non-ricorso alle droghe è stata solo una svista, l’errore di una dilettante, alle prime armi, con un’esistenza strabordante, informe e dolente, peggio del peggior brufolo sottocutaneo. Quando sarebbe esploso? Quando sarei esplosa? Il bilancio era negativo, i conti non tornavano. Roba che se fossi stata un’azienda qualsiasi, uno scarcaticcio di quattro o cinque dipendenti, li avrei già mandati tutti a casa. C’è crisi. Non sapevamo si sarebbe contesa il primo posto degli svagheggiamenti migliori, dopo C’è coviddi. All’attivo avevo tre terapisti scappati, una che mi aveva scaricato, uno che aveva provato a ipnotizzarmi per agguantare la mano di quella bimbetta tutto caschetto biondo e sorrisone. Era chiaro che mi avesse scambiata per la figlia di Enzo Paolo Turchi. Di maestri di palestra ne avevo abbordato uno, un tipo del Sud, che amava molto il Nord. L’unico meridionale pazzo doveva capitare a me. Non abbiamo mai fatto niente, oltre a un caffè in centro, una chiacchierata al di fuori di quelle mura trasudanti proteine e sudore. L’Olimpo del XXI secolo. Gli avevo raccontato genericamente la mia vita, mantenendo quel tanto di vago che mi avrebbe permesso una via di fuga. Fare il vento era l’unica cosa che mi era sempre riuscita benissimo. Mi facevo vento. Avrei portato di sicuro pioggia. Il copione era sempre lo stesso. Fingevo attacchi ossessivi, disturbi dell’attenzione, TSO, ché se Basaglia si fosse fatto gli affari suoi altro che manicomio. Le crisi di rabbia erano l’apice, quando il soggetto X si attaccava in modalità cozza-salvatrice. A quel punto il gioco era fatto. Potevo tornare a crogiolarmi nella mia solitudine, fra un lamento, e un’euforia che mi faceva girare nuda per casa per ore, felice che quel vicino pensionato potesse godersi le ultime gioie della vita. Mi era sempre piaciuto aiutare gli anziani. Togliermi un pischello di torno era come togliermi un vestito. Tagliarmi i capelli. Provare un nuovo trucco rigorosamente nickel free. Se no altro che Bentelan. Mi avrebbe fatto venire le bolle. Tutto quello che mi infastidiva, mi faceva venire le bolle. Il rigetto psicologico passava da un rigetto fisico. Nei momenti di massimo sconforto esistenziale, mi ero fatta leggere le carte su un baracchino in via Lagrange, da una sedicente maga, una il cui nome era ovviamente secretato. Razzi con i soldi che ci toglieva dalle tasche doveva aver trovato il modo di restituirceli. Un esempio da manuale di economia circolare.
E amico caro, fatte li cazzi tua, ché ci sta sempre bene.

Aveva un cagnetto bastardo, tarchiato e lungo come un Bassotto, ma con i riccetti tirabaci da Barboncino che rimarca la zona di provenienza. Non sono mica un’accattona. E chi l’hai mai pensato, per carità. Insomma, alla fine la maga le carte me le aveva fatte davvero, e il risultato era stato che c’erano troppi bastoni. Li vedi quanti bastoni? Avevo scrutato le carte disposte su un tovagliolo fatto a tovaglietta. In effetti c’erano tanti bastoni. Ora, il mio primo pensiero era stato fortemente suggestionato dall’immaginario di Suburra. Strano modo di esperire la nostalgia di casa. Mi avrebbero menato. Ecco cosa sarebbe successo. Mi avrebbero fracassato di botte. Rebibbia come nuova religione. Ma qui eravamo nel profondo Nord. Qui c’era la civiltà. Non lo senti il profumo di civiltà? Il cagnetto-covo-di-pulci aveva pisciato un piscio giallissimo e maleodorante. Avevo appena fatto in tempo a scansare la punta delle scarpe nuove, nuove, ventinove euro ben spesi. Tipo i tarocchi. La maga aveva sorriso magia, allungando il mento già lungo, I bastoni sono un simbolo fallico. Ma certo! Come avevo fatto a non pensarci? Freud qualche strega l’avrà pur sedotta. Circe che incontra Ulisse. Non ci stavamo inventando niente. Ci sono questioni irrisolte con il sesso, ti sta creando problemi. Il cagnetto si era messo a dormire nel posto in cui aveva pisciato. Una ciambella di urina e pelo. La maga si era sbrigata a rimettere le carte nel mazzo, a rimischiarle, ché qui siamo al Nord, dobbiamo fatturare. Le avevo lasciato venti euro in due pezzi da dieci.
Li mortacci tua, e di chi te chiama pe’ nome.
Mi ero sforzata di pensare a chi potessi attribuire questo elemento fallico. Chi fosse il cazzo problematico della mia vita. Era come se fossi Mendel, inforcavo inesistenti occhialetti da biologa, uno, due, tre, quattro. Quando mi sarei addormentata? Il sonno della principessa.
Quarantotto ore dopo, l’Italia era preda del più minaccioso virus del secolo. Nessuno si rendeva ancora conto che avrebbe salvato l’ecosistema di interi nuclei umani. Se non ti scanni nel lockdown, ti fortifichi. Ma era chiaro che fosse un segnale che questo problema lo dovessi estirpare alla radice. La maga aveva voluto preannunciarmi anche questo?
Avevo fatto il viaggio in clandestinità, in piena notte. Una mia compagna di corso siciliana mi aveva chiamato mentre stavo esaminando uno dei semi che avrebbe germogliato disastri. In un bagno non mio di una casa che conoscevo appena, avevamo fatto una conversazione da carbonari. Hanno già chiuso i confini della Lombardia, presto arriveranno anche in Piemonte. Io non la faccio la fine del topo qui. Avevo riflettuto in fretta. Allo specchio mi ero controllata la faccia. La torcia del telefono era rimasta accesa. Mi ero guardata intorno. Di là c’era un rumore di un film anni Settanta, roba tipo che ti faccio vedere che ho gusti raffinati senza conoscere manco la trama. La volta dopo, se ci fosse stata, mi avrebbe sicuramente propinato un famosissimo regista sudcoreano. Avevo tirato lo sciacquone. Col cazzo che la faccio pure io. Un brufoletto, un accenno di rossore appuntito, mi stava spuntando al centro della fronte tipo terzo occhio.
La malattia nera cominciava a diffondersi. Damose.

Mi era venuta a prendere in macchina insieme al compagno. Sarebbero passati per Roma che il sole stava sbadigliando, la città ancora addormentata. Nessuno ci avrebbe beccati. Bezos finito ar gabbio avrebbe con ogni probabilità consegnato i pacchi con la stessa arguta strategia.
Mia madre era alla seconda confezione di Lexotan, alla terza le industrie farmaceutiche avrebbero fatto una colletta per regalarci un buono vacanza alle Seychelles, Hai mangiato? Stavo scappando dalla Terza Guerra Mondiale messa in essere attraverso colpi di scatarri, e lancio di fazzoletti smoccicati, e tu mi chiedi se ho mangiato. Era evidente che la questione fosse di natura fallica. Alle cinque di mattina mi ero ritrovata a mangiare una zuppa farro e lenticchie. Fossi stata fidanzata, avrei davvero eliminato il problema alla radice. Proprio come diceva la maga-canara.
Comunque Torino, via Lagrange che non è il nome di un parcheggio, il suo sotto strato esoterico, le cartomanti, i circoli di lettura di libri finto censurati, gli scritti che fra compagni ci scambiavamo di notte come fosse il fumo più buono della piazza, tutto questo, perfino il viaggio clandestino, la siciliana troppo loquace, il ragazzo-driver più silenzioso dei nostri cellulari in silenzioso, tutto ha preso le sembianze di una Polaroid datata boh, ritrovata in chissà quale cassetto, sbiadita, forse anche un po’ ingiallita, qualcosa di cui, anche sforzandoti, ricordi a malapena, e anche se te lo ricordi preferisci non ricordare.
Ho pensato che questo significasse scordare. Che avesse veramente la stessa consistenza di una fotografia senza album, senza cornice, di qualcosa di abbandonato. Potevo farlo. Potevo dimenticarmi dei tre terapeuti che mi avevano pisciato in testa, di quella che ancora ogni tanto mi chiamava solo per trattarmi come il suo ansiolitico naturale, tante ossa, poca carne, del ginnasta-polipo, di quello che mi aveva squadrato la schiena come fosse un reperto dell’Antica Grecia, un brandello di telaio di Penelope. Omero mica era un precursore della droga sintetica. Tutto vero. Era tutto vero. Anche io ero un po’ un brandello. Dei giorni mi ci attaccavo con morbosità. Non volevo che sfumasse, che sfumassi. La farmacia sotto casa dove compravo compulsivamente varianti di erbe officinali che mi avrebbero, in ordine sparso, aiutato a dormire, a mangiare, a socializzare, a scrivere, a ridere, a sorridere, a respirare, a cantare, ad andare in macchina, a prendere un treno, a prendere un treno di notte, a sognare, a non sognare affatto, a riposarmi, ad attivarmi, a essere un essere umano con due gambe, due braccia, una testa, un cuore, qualcos’altro buttato nel mezzo, a capire di esserlo. Gli scatoloni di tre, quattro piotte di farmaci che erano rimasti lì, sopra le padelle, sopra la cappa della cucina, ché così non impicciano. Un tesoretto fra le pentole. Era ancora tutto lì.

Poi, mi sono resa conto che la questione più che fallica, era etimologica. Non si può togliere dal cuore ciò che ne è parte, materia. Quella era la mia materia. Andavo a cose in cui credere. Tutti ci andavamo. Io avevo bisogno dei fattucchieri, delle pozioni magiche, della sensazione del portafoglio che si svuotava, del conto in banca che scendeva, delle giustificazioni che avrei dato ai miei, a mia madre. Sai, mamma, ho una questione fallica in sospeso, per cui mi devo riempire di tranquillanti, niente di chimico eh, lo giuro, vabbè sì, poi sono andata da una maga, una che leggeva le carte, il destino, niente di che, ma no, no che non ci ho creduto. Appena, appena.
Era la mia medicina. La mia vera medicina.
Non voglio dire che boicottare la realtà sia quello che mi rende viva. Una assurda deriva psichiatrica, uno strano incrocio fra l’ipocondria e la mitomania. Non voglio dire che per me sia stato così. Ma non posso nemmeno escludere il contrario. Che non abbia avuto motivo per curarmi, e che non abbia avuto motivo per mentire. E che le due cose non abbiano finito per coincidere, in qualche mia strana mutazione. Come se avessi preso il covid, mi sono semplicemente immunizzata. Non posso nemmeno affermare che non lo prenderò mai più, che non sia una recidiva perché con tutta probabilità lo sono. Sono una cazzo di recidiva, una di quelle cose fastidiosissime che accadono, e riaccadono, finché la mente non si stacca dal corpo, finché non c’è dissociazione.
Allora un giorno ho preso carta e penna, ho fatto finta di scrivere una lista. Era tutto nella testa, e anche questo mi ha aiutata a non farlo riaccadere. Ho scritto di essere una dissociata. Non c’entravano robe di camorra, mafia, mandolini, lupare bianche, P38, nostalgia del sovvertimento dei poteri forti. Io non ero più né nostalgica, né forte. Ero una recidiva dissociata. Quindi non potevo più nemmeno considerarmi recidivante. Poi, ho scritto da cosa mi dissociavo. Ho trovato più difficoltà. Il processo di separazione era già in atto. Dovevo solo prenderne coscienza. Fare un tuffo, toccare il fondale, e riportarlo alla luce, riportarmi. Sentire le papille farsi salate con quel dito fra i denti, lo stesso che aveva toccato il fondo.


editing di Alessandro Tesetti.
