Cani sciolti

un racconto di Elena R. Marino,
tutte le fotografie di Elena Lionetti.

Li senti abbaiare lungo la via del centro. È lunedì sera. Loro sono alti snelli e veloci, si sommano e si sottraggono – prima le loro voci, poi loro stessi – nel movimento continuo con il quale, mentre avanzano, sembrano allargarsi, intrecciarsi, sovrapporsi, moltiplicarsi, espandersi in un branco infinito di cani che assedia la città. Un’ilare e sguaiata macchina da guerra. Li hai guardati, badando a non finire fuori strada con la tua bici: sono solo ragazzi, solo tre ragazzi stranieri, ma riescono a fare tutto quel casino. Abbaiano in modo virtuosistico, riproducendo differenti tipologie di cani, e solo talvolta inseriscono qualche risata che li smaschera come esseri umani. Riempiono la via d’un tratto squarciandone il silenzio, la sonnolenta via del lunedì sera nel centro cittadino, con i negozi aperti ma vuoti. Tu passi in bici e ti volti a guardare un papà con una bambina per mano che procede tranquillo in mezzo alla via, tanto è ZTL, ma a un certo punto, mentre alle sue spalle il canaio aumenta, lo vedi voltarsi velocemente a controllare. Sono solo tre ragazzi, ma lo sbeffeggiamento è chiaro. L’abbaiare li rende immensi lungo la via che adesso si restringe, là dove una parte del quartiere vecchio rispunta nei vecchi ballatoi ristrutturati che sovrastano il passeggio dei nostri giorni, e nei balconcini di foggia medievale che solo pochi alzano gli occhi a notare, e all’angolo antico che adesso è sede di una boutique che s’inerpica su scalette d’un tempo perduto, fino a un terzo piano in cui hanno vissuto ma che adesso ospita manichini e marche.

I ragazzi saltano, sono agili, camminano, non corrono, eppure sono velocissimi, e chi se li sente alla schiena d’un tratto è sovrastato, attaccato, deve svicolare, entrare in un bar, svoltare sperando che non lo seguano anche lì.

Ti metti a pedalare veloce, volevi fermarti a guardare le vetrine del negozio svedese che vende sottocosto, ma invece tiri dritto, e alla diramazione della via sovrastata da un baldacchino ornamentale con madre, bambino e angelo, ecco, là svolti e fili liscia giù per la via, acquisti velocità, il tombino lo eviti e pensi che arriverai presto e dovrai… E dietro di te l’abbaiare sghignazzante. Freni, accosti, ti volti per guardare: vengono proprio da questa parte, sono ancora dietro di te, non è possibile. Anche se abbastanza lontani. Sono veloci. Quanto veloci?

Scappi verso la periferia, sfrecci fuori dal centro storico, eviti tombini, qualcuno non riesci a evitarlo, il colpo secco che ammortizzi alzandoti dal sellino come chi monta all’inglese un bel cavallo. Quanto tempo che non sentivi questa libertà e questa angoscia insieme? Sei felice ma devi tornare a casa. Oltre i semafori, all’ombra degli immensi platani che hanno visto pagine di storia, pedali più lentamente, le automobili si incrociano e scivolano verso vite perdute. Negozietti grigi e profondi, che scendono come catacombe là dove non ci sono finestre, alcuni vendono libri di seconda mano, altri merce strana e artistica per decorare case benestanti di proprietari inquieti. Un bar, un barbiere, le cornici. Ed eccoli, di nuovo loro, alle tue spalle: l’abbaiare che ti perseguita. Lontani ma inevitabili, nel silenzio di un lunedì sera di luci stanche e poche parole. Il padre aveva stretto la mano della figlia piccola e aveva sentito quanto era piccola davvero quella mano. Avrebbe voluto accelerare il passo ma le gambe della bambina erano corte, e più di tanto non potevano correre. Come avrebbe fatto a proteggerla? Si era sentito bambino con addosso un corpo adulto e per mano un altro bambino come lui, privo di quell’armatura di carne e ferite. Aveva fantasticato di voltarsi e affrontarli, solo perché gli avevano mosso la paura dentro, e quello era stato un affronto che non avrebbe voluto perdonare. Se non ci fosse stata la bambina da proteggere, si sarebbe voltato e avrebbe gridato anche lui, avrebbe riportato a forza il silenzio.

La tua bici scivola ancora più lontana, sei presto a casa. Un intero isolato è proprietà dell’Amministrazione. Un labirinto con rampe che conducono ai parcheggi sotterranei e portici di stile ultramoderno sotto i quali ci sono uffici che sembrano perennemente chiusi e sportelli bancomat presso i quali di notte sostano alcuni irriducibili sui sacchi a pelo con i cartoni di vino e tante chiacchiere da fare per i fatti loro. Un vecchio ragazzo a testa bassa cammina veloce e urla: «Se ti prendo, puttana, lo vedi che cosa ti faccio!» Urla con tutto il fiato che ha in gola, i pugni stretti. Cammina veloce tutto piegato in avanti, ha le spalle taurine e la testa spelacchiata. Ripete inesausto la medesima frase, con varianti più truci, e mentre tu passi da lì con la bici un po’ ti spaventi, temi che ti possa vedere, non sai se devi telefonare ai carabinieri e raccontare che lì c’è uno che corre dietro a una donna, che forse è già riuscita a mettersi in salvo o forse no, tu non lo sai, lei non la vedi, ma senti la sua paura, l’angoscia, e dove si può nascondere una per non essere presa da un pazzo furioso che la minaccia di sera, in una parte della città tutta uffici chiusi, quando la gente è a casa sua, a cenare o a guardare la televisione? Ti chiedi come comparirà il tizio nella registrazione delle videocamere di sorveglianza e se mai qualcuno le guarderà. Se non tocca i bancomat o scassa la porta degli uffici, probabilmente mai nessuno le guarderà, e la ripresa resterà per un po’, come un film mai montato, poi sparirà.

Sei quasi a casa, ma il canaio ti insegue ancora.

Non li vedi, ma li senti. Nel dehor del bar chiuso, nella via traversa a quella in cui passi chiedendoti se dirigerti proprio verso casa (e se quelli vedono dove abiti?), un uomo con un impermeabile chiaro legge un libro seduto a uno dei tavolini incatenati. Eccoli. Tu calcoli la distanza da casa tua, scendere dalla bici, aprire il lucchetto che chiude il vecchio cancello di ferro, poi potresti richiudertelo alle spalle ed essere in salvo. Ti aspettano, devi fare. Ti aspettano, ci sono delle cose che devi fare. Sei ferma in mezzo alla strada a decidere, mentre alle tue spalle esplode l’abbaiare sguaiato che non finisce, non finisce. Quanta energia hanno? L’uomo che legge il libro alza lo sguardo dalle pagine. Anche lui è straniero, e l’impermeabile è macchiato. «Se ti prendo, puttana, lo vedi che cosa ti faccio!» Ha fatto il giro dell’isolato, così veloce, e adesso riprende ad avanzare a grandi passi energici su questa parte del portico lucido, illuminato e deserto. In un istante di cui non ti rendi conto tu decidi. Rimetti il piede sul pedale e inverti la direzione. Non tornerai a casa. Ti senti di nuovo libera, l’importante è scivolare via in mezzo a tutto questo e lasciarselo alle spalle. Non sai dove andare: dove ti porta la bici e la notte che ormai preme sulle luci led che allucinano la città. Lo straniero con l’impermeabile si alza con il libro in mano e si allontana lentamente dal suo tavolino incatenato. I ragazzi giù in fondo alla via con luci di ghiaccio avanzano ancora allargandosi, intrecciandosi, sovrapponendosi, moltiplicandosi, espandendosi in una muta infinita di cani che assedia la notte. «Se ti prendo, puttana, lo vedi che cosa ti faccio!» Ma anche lui li sente. «Puttana, puttana, puttana!» I tre ragazzi sono agili e instancabili, sono giovani e imbattibili. Il loro abbaiare è gioioso e terribile, il vecchio ragazzo che urla contro la donna “puttana” si ferma ad ascoltare, poi bestemmia, si volta da una parte, si volta dall’altra come una macchinetta giocattolo che impazzisce per il telecomando in mano a un bambino maldestro. La via è deserta, i ragazzi avanzano, lo straniero con il libro sotto il braccio scende per una delle rampe che portano al parcheggio sotterraneo. L’ombra lo inghiotte mentre posa un piede dietro l’altro, lentamente, sul cemento scanalato della rampa. Dall’altra parte della via il vecchio ragazzo si agita furioso, la parola “puttana” gli rimane tra i denti. «Vi spacco, vi spacco tutti», dice. Pugni forti, spalle forti, tutto il resto è frantumato. Vi spacco tutti, tutti. Ecco l’abbaiare che s’avvicina, quei maledetti chi sono? Il vecchio ragazzo s’accarezza frenetico la cicatrice sulla testa, il taglio lungo che non permette più ai capelli di crescere. S’accarezza, la mano veloce, come se si masturbasse, s’accarezza la testa e d’un tratto la sua rabbia s’incrina, diventa un lamento che gli parte dalla pancia e gli esce dalla mandibola come se fosse l’osso a cigolare. La muta di cani è vicina, vicinissima. Il vecchio ragazzo tremando si butta per terra, accanto a un cespuglio di rose. Si butta per terra, accanto alle rose, in mezzo alle rose. Eccoli che arrivano. Eccoli. Che arrivano. Eccoli, l’abbaiare furioso, la beffa, ecco che lo deridono. Ecco che sono sopra di lui. Lo picchieranno, lo uccideranno, lo picchieranno sulla testa, vecchia puttana, lo uccideranno come un cane. Il vecchio ragazzo si scioglie in lacrime e in piscio. Urla, risate, ululati. L’abbaiare che ti perseguitava. Il vecchio ragazzo si rannicchia, attende l’inevitabile, vecchia puttana. Il canaio è sopra di lui, esplode nelle sue orecchie, e in pochi passi agili è già oltre. I tre ragazzi saltellano per strada, sono agili e instancabili. Il vecchio ragazzo scivola lentamente sulla schiena e guarda le rose che pendono stupidamente su di lui, respira e diventa asfalto, per la prima volta in pace. Con una mano si accarezza il petto, l’inguine, e da ultimo la testa.

Il suo corpo è tutto lì, non interessa a nessuno, come la strada, come le rose, come i cani già lontani.

Solo all’altezza dell’isolato successivo il gruppo si ferma. Una Harley Davidson splendida è parcheggiata a lato di una piazza deserta con giardini artificiali. Uno dei ragazzi allunga una mano, accarezza il manubrio con desiderio, la pelle della sua mano percepisce la gomma dell’acceleratore sagomata come una pannocchia. Gli altri due si interessano per poco, si allontanano subito riprendendo l’andatura precedente.

Il terzo invece indugia, li guarda allontanarsi. Con uno scatto misurato della gamba sale a cavalcioni.

editing di Alessandro Tesetti.

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