Annichilimento

un racconto di Ilaria Parlanti,
tutte le fotografie di Francesco Basile.

Apre la porta e vomita lì, sulla soglia, i resti del cornetto e del cappuccino. Non ricordo il suo nome, il suo volto, però, mi è rimasto impresso insieme a quella sua postura impeccabile, il braccio alzato per chiedere l’attenzione: domande improvvisate ma calzanti, sorrisi sparsi in direzione della cattedra, le carezze ai libri nuovi in bella vista sui banchi. 

Dietro di lei compare una sua amica. Si tappa il naso con le dita della mano sinistra. I suoi occhi incrociano i miei, le labbra piegate in giù dal disgusto. 

«Quello è pazzo. Ha portato la cosa e pretende che sia divertente. Noi ci ritiriamo, tu che fai?» mi chiede.

Io che faccio? Mi guardo intorno, non dico niente. Penso all’appello di laurea, a quell’unico esame che mi manca. In quella stanza progetto il mio futuro e il mio passato: la possibilità di essere ammessa alla specializzazione; l’iscrizione all’albo; i sussidi economici che ho richiesto per studiare; il sudore di mio padre nei campi; l’odore di cipolla bruciata della nonna, quando al telefono le ho detto che sì, può dire in paese che sto per diventare medico. Non è solo questione di necessità. È un fatto di orgoglio. La responsabilità di non deludere le aspettative. Di mio non ho niente, tranne una valigia in un monolocale e il biglietto del treno per tornare a casa. Una spatriata per cercar fortuna. Mi metto una mano nella tasca dei pantaloni, conto gli spiccioli. Settantacinque centesimi. Penso ai milleduecento euro che lo Stato dà agli specializzandi per i turni al pronto soccorso. Scrollo le spalle. Passo vicino al vomito, due schizzi mi sporcano le converse rotte. No, non mi fa schifo. Mi sono abituata a tante cose. Mi abituerò anche a questa.

Apro la porta ed entro. 

Quando il professore chiama il mio numero di matricola al microfono mi alzo in piedi di scatto. Sento il diaframma abbassarsi, le ossa della gabbia toracica aprirsi e i polmoni si gonfiano d’aria stantia. Le finestre sono chiuse, sui banchi aleggia davvero il puzzo della cosa che troneggia al centro della stanza: un odore di vecchio, di naftalina, come quella che mia nonna mette negli armadi, tra i vestiti. C’è odore di liquidi che sono fuoriusciti, ma, più di tutto, c’è odore di putrefazione, del corpo che si macera, anche se è stato in una cella frigorifera per tutto quel tempo, per farcelo ammirare. È vero quello che c’è scritto sulla porta del cimitero: quello che noi siamo stati, voi siete; quello che noi siamo, voi sarete. 

Scendo i gradini che mi portano al tavolo, il fetore è sempre più invasivo. Qualche collega è svenuto, altri se ne sono andati prima ancora di cominciare. Cammino piano, la paura mi fa tremare le mani all’attaccatura delle falangi e so che non è una buona qualità per un chirurgo. Sotto quel lenzuolo giallo, c’è la cosa, è bene non darle nomi propri, nomi concreti, per non accelerare ancor di più il battito cardiaco che, insieme a un acufene da stress, non mi fa sentire niente del brusio intorno.

Mi passo una mano sulla nuca, mi fa male il cuoio capelluto. Qualche passo e sono davanti al tavolo di metallo. 

«Bene, iniziamo» dice il professore. Io annuisco. Deglutisco l’eccesso di salivazione che mi impasta la lingua. Guardo ancora la cosa sotto il lenzuolo, quelle pieghe del tessuto a mostrare delle forme. Ne afferro un lembo, lo scosto: il volto di una donna. Mi dico che non può avere più di quarant’anni. Il professore lo conferma, leggendo dalla scheda.

«Ilaria Parlanti, quarantadue anni, sindrome di Jarcho Levin. Sa cosa comporta la sindrome?»

Per un attimo, distolgo lo sguardo dal corpo e lo punto sul muro di fronte a me.

«Malformazioni vertebrali, della gabbia toracica, degli organi interni, soprattutto polmoni» rispondo.

«Esatto. E infatti è morta di insufficienza respiratoria».

Torno a guardarla, mentre tolgo del tutto il lenzuolo: i seni secchi, la pancia gonfia, le gambe storte e i piedi dritti. Non pesava più di quaranta chili per un metro e cinquanta di altezza.

«È stata operata ventiquattro volte alla colonna, le è stata impiantata una barra di Harrington. Ora, signorina, il suo compito è estrarre l’asta per mostrarla ai suoi colleghi. Vedrete come gli australopitechi curavano le malattie ortopediche-neuromuscolari». Il professore scoppia a ridere, io rimango impassibile. Osservo di nuovo il profilo di quel volto: il naso un po’ adunco, un setto nasale deviato; le labbra gonfie, di un viola scuro; le palpebre leggermente aperte, un errore delle pompe funebri. Nella mente, le chiedo il permesso di ciò che sto per farle. 

Mentre mi metto i guanti in lattice che il professore mi porge, mi domando cosa ne sia di Dio.

Quando l’avrò amputata dalla propaggine che l’ha fatta vivere per quarant’anni, sarà solo un torso cavo, incapace di assumere una posizione eretta al momento della resurrezione. 

Faccio cenno ai due assistenti di aiutarmi. Uno prende la testa, l’altro i piedi e rovesciano il corpo sul ventre. Una gamba cade nel vuoto e picchia contro il tavolo, l’ematoma che non si formerà, il dolore che non ha sentito mi raccapriccia. Le guardo le mani, mentre la voltano: unghie mangiate fino alla carne. Oggi non si vedono più casi così. La malattia è quasi debellata. E allora cosa significa la sua presenza qui?, questo corpo dal colore giallo itterico, morto ma sopravvissuto a settantadue ore di cella frigorifera. 

Ci dicono che imparare la storia delle patologie serve a non replicare gli stessi errori terapeutici; per me, però, dimostra solo una nostra vana superiorità: si muore ancora, ma meglio, con più dignità e meno sofferenza.

Conto i solchi in mezzo alle scapole: sono davvero ventiquattro. Partono dalla cervicale e arrivano alle natiche e poi ancora sul gibbo a sinistra, su quella scapola destra che ruota all’interno – questa colonna curva è andata a comprimerle prima il polmone destro e poi il cuore; mi immagino lo schianto, dopo anni di respiratori e ossigeno erogato da una bombola. Cerco di non pensare alla sua storia, alla vita che ha avuto, un’aspirazione diversa dall’essere utile alla scienza?

Alla fine, però, per me è solo un voto, necessario al mio futuro. Mi scrollo di dosso la sensazione di profanazione che mi è presa. Premo col bisturi sulla pelle, apro quei tessuti non più nel limbo del vivrò o morirò, nei giochi che fa il tempo.

«Avanti» incita il professore. Offro una preghiera a questa donna, un corpo che dovrebbe essere sepolto o cremato. Divarico gli strati di derma e muscoli con le pinze, adesso vedo l’acciaio della barra. Prendo il martello dal banco degli strumenti, forse è questo che voleva quando ha firmato, donando il suo corpo di carne e ferro alla scienza: l’idea di essere distrutta. Due colpi, secchi e precisi sugli attacchi dell’Harrington. Il tavolo si muove, il corpo subisce il contraccolpo.

Mi guardo la mano sinistra, quella stretta decisa intorno alla barra integra e luccicante, un acciaio che non fa ruggine. Poi, di nuovo, abbasso lo sguardo verso il corpo – si chiama Ilaria, si chiamava: la discrepanza dei tempi verbali, sta tutta qui l’allegoria vuota della vita – e vedo un grumo di escrementi che le esce dall’ano, l’effetto dei miei colpi. Non so se lo volesse, l’annichilimento che le ho dato. L’ho svuotata di tutto, anche della dignità.  «Trenta e lode!» esclama il professore.

editing di Alessandro Tesetti.

Leggi anche…

Annichilimento
Fratelli
Munera