


un racconto di Mattia Scorzini,
tutte le fotografie di Shanti Simonetti.
Da quando mi sono trasferito qui al paese ho preso l’abitudine, ogni sera dopo cena, di uscire a farmi una sigaretta nel giardino di casa. Ci sono due alberi e molte erbacce che arrivano quasi all’altezza del ginocchio, ortiche e altre di cui non conosco il nome. Potrei impegnarmi di più a tenerlo ordinato, è vero, ma non è solo questione di incuria. È che è un mese che quassù piove quasi senza interruzione, e le piante crescono in fretta. Soltanto stamattina c’è stato un po’ di bel tempo e sono andato a camminare, ma già al tramonto le nubi avevano ricominciato a scendere sulle cime dei monti. Adesso il sole è calato e le creste che chiudono la valle sono di nuovo incastrate in una cappa di fumo bianco. Mentre le osservo ritorno a tutto quanto, una sorta di malinconia mi prende, e penso che questa volta voglio finalmente provare a guardare le cose negli occhi per poter dire senza troppe menzogne: «È andata così».
Ho conosciuto Lucio in un liceo di Roma quando avevamo quattordici anni, stavamo in classe assieme.
Portava gli occhiali tondi e aveva le sopracciglia folte, nerissime, la carnagione olivastra. Era alto e dinoccolato, di bell’aspetto, proveniente da una di quelle famiglie serie e benevolenti che la domenica pranzano intorno al tavolo mangiando primo secondo e contorno. Faceva sport regolarmente, usciva con le ragazze, aveva molti amici. Era insomma quello che, semplificando un poco, potremmo definire un adolescente normale, con quel minimo di gusto per la ribellione che compete ad ogni liceale che si rispetti e non molto di più. Nel giro d’un paio di mesi diventammo amici. Due anni dopo, bocciato agli esami di recupero, ci raggiunse in classe anche Celso che era di alcuni mesi più grande di noi. Bastava guardarlo con un poco d’attenzione mentre camminava per i corridoi della scuola, sempre sulle punte dei piedi e col collo infossato tra le spalle quasi dovesse ad ogni momento difendersi da qualche agguato, per capire che era un tipo d’altra pasta. Aveva la faccia tonda e gli occhi scuri come carbone, un cespuglio di lunghi ricci disordinati che gli coprivano metà fronte. Non parlava molto. Perlopiù disegnava: seduto all’ultimo banco con una Coca-Cola fin dalle otto e trenta del mattino, riempiva quaderni di illustrazioni fantasmagoriche e perturbanti. Era molto bravo, e casa mia è piena di suoi quadri e disegni sparsi di qui e di là.
Per un periodo tutti e tre fummo inseparabili. Oggi, credo che a legarci in quel momento delle nostre vite fu la comune insofferenza per l’esistenza ordinata cui ci stavano addestrando e che sentivamo di rifiutare. Passavamo le notti insieme a camminare bevendo vino e facendoci le canne, scavalcavamo i muri di notte ai fori imperiali per passeggiare in mezzo alle rovine antiche e recitavamo a memoria Urlo di Allen Ginsberg come se fosse una sorta di vangelo. Ci sentivamo dei veri e propri beatnik che non tolleravano la vita proposta dalla società, quel vacuo trantran di lavoro studio e famiglia che non ci stava semplicemente stretto, ma ci soffocava alla sola idea.

Lucio leggeva tanta poesia. Gli piaceva soprattutto la maniera americana di scrivere, schietta e diretta come un pugno alla bocca dello stomaco. Poi conobbe Baudelaire. Cominciò a scrivere versi su quaderni neri in pelle e a farceli leggere. Avevamo trovato una sorta di molo in disuso sul Tevere e la sera andavamo là a scolare bottiglie e parlare di letteratura, la chiamavamo la zattera della poesia ed era uno dei nostri posti preferiti, proprio a metà tra San Pietro e l’Isola Tiberina. Lucio si metteva lì in piedi con i capelli spettinati e gli occhiali che riflettevano i bagliori notturni, e timidamente leggeva. A me piacevano molto le sue poesie, anche se non credo di averglielo mai fatto capire fino in fondo. Mi mettevo sempre là inforcando gli occhiali di un critico che non ero, commentavo e non dicevo mai con il cuore interamente aperto: «Che belle parole che hai scritto». Ora me ne pento di questa rigidità, e penso che magari, se mi fossi comportato altrimenti e non fossi stato così attaccato al mio orgoglio, oggi la situazione sarebbe diversa.
Ma di rimpianti non si campa.
Alla zattera e negli altri giri, Celso stava sempre con noi a parlare, anche se non leggeva quasi niente. Non per partito preso, ma perché soffriva di un disturbo dell’attenzione. Guardava film e ascoltava tantissima musica, disegnava quasi sempre e fumava abbastanza marijuana da stordire un cavallo. Qualche tempo fa sono ripassato nella nostra vecchia scuola per prendere il diploma, ne ho approfittato per fare un giro e ho visto che sulle pareti dei corridoi non hanno cancellato dei grandi disegni fatti da Celso durante un’occupazione di quasi dieci anni fa. Mi ha fatto piacere che fossero ancora lì, e mi sono ricordato di lui che a scuola girava con il suo cappotto beige e il pennarello di vernice nella mano, sulle sue come un gatto, a fare i murales. Insieme a Lucio bevevano molto, a volte arrivavano a scuola ubriachi sul serio già prima della campanella, e per un periodo Celso ebbe la brutta abitudine di riempirsi di vodka le bottigliette d’acqua da mezzo litro per scolarsene una ogni mattino. Lo vedevi seduto all’ultimo banco che fremeva per i tic facciali, poi improvvisamente apriva la bottiglia e con un gesto veloce d’animale forastico ne faceva un sorso che lo calmava per un buon quarto d’ora.
La scuola non era mai stata il suo forte, ma quella pratica ne peggiorò le prestazioni. Non riesco a dimenticarmi di quando una volta consegnò la versione di greco dopo quindici minuti dall’inizio del compito.
«Celso… non vuoi neanche provarci?» gli domandò con dolcezza la professoressa.
«Provarci? Questo non è greco. È cinese», e tornò a ubriacarsi nel suo ultimo banco fila centrale. Sballarci e parlare di beat: quello ci sembrava il modo di essere all’altezza dei nostri desideri.
Volevamo essere scrittori e poeti, artisti, rivoluzionari vagabondi capaci di lasciarsi ogni cosa alle spalle prendendo il primo treno che passava per la stazione e girando l’Europa senza un soldo in tasca.

Ma noi non prendevamo nessun treno, e i soldi ce li davano i nostri genitori. Ci sentivamo beat, sì, ma non capivamo il fatto principale: che c’è una distanza incolmabile tra una ribellione che ti è concessa come sfogo adolescenziale e una ribellione che investe e stravolge tutta la tua esistenza. Ora che questa cosa l’ho capita, mi viene tristezza e anche un po’ mi vergogno se ripenso a tutti quei pavoneggiamenti interiori a cui mi lasciavo andare, come quando a sedici anni m’ero convinto che volevo lasciare la scuola per dedicarmi interamente alla scrittura e avevo cominciato a dirlo in giro ai professori.
«Ma che stai dicendo?» mi prese una volta da parte quella di arte. «Sei impazzito?»
«No, non sono impazzito professoressa, non sono mai stato più lucido di così».
«E che vorresti fare fuori da scuola?»
«Lo scrittore, come Martin Eden. Conosce?»
Io e Lucio vedevamo tante ragazze in quel periodo, e facevamo spesso l’amore. La prima volta che lui fece sesso fu a casa mia. Mia madre non era a Roma, gli lasciai le chiavi e gli dissi: «Vai pure». Un po’ di tempo dopo, a un Capodanno, lui mi ricambiò il favore. Di ragazze invece Celso non ne parlava mai. Appena intavolavi il discorso lui si mutava ed era capace di tornarsene a casa senza dir nulla lasciandoti come un fesso sul bordo del Tevere con in mano la bottiglia. Io e Lucio, a quel tempo, avevamo la presunzione e l’immaturità di ignorare la frustrazione che ingeneravano questo tipo di discorsi in lui. Era, forse, anche un po’ questione di egoismo. Volevamo vedere in Celso l’artista e nient’altro, e chiudevamo gli occhi davanti a tutti gli altri aspetti di lui che non sapevamo come affrontare. Come l’autolesionismo. Dalle spalle ai polsi le sue braccia sono oggi un mosaico di lucide cicatrici orizzontali, ma non ricordo mai un singolo commento o una domanda mia o di Lucio sul perché si infliggesse tali ferite.
Non è che non ci importasse della salute di Celso.
Credo piuttosto che fossimo troppo giovani per entrare in comunicazione con quel malessere, e che quindi provassimo a intercettarlo nei nostri modi poco consoni. Bevevamo, ci facevamo le canne, giravamo per Roma di notte come randagi e ci emozionavamo di fronte alle cose belle. Giocavamo anche di ironia quando la situazione ce lo permetteva, come quella volta che a scuola Celso domandò di andare in bagno e poi cominciammo a sentire strani rimbombi dalle pareti. Mi mandarono a controllare e lo trovai che quasi si spaccava il cranio sul muro del corridoio a forza di testate.

«Celso, ma che cazzo stai facendo?»
«Ho mal di denti».
Gli dissi di provare con le medicine. Allora smise. Poi però prese ventitré bustine di Oki in due giorni e gli venne un principio di steatosi epatica.
Ecco, sì, c’era una forma di attenzione, ma di Celso io e Lucio eravamo soprattutto amici, e in un periodo della vita nel quale non si ha ancora bene chiaro in testa che dentro l’amicizia ci sia spazio per quella cosa chiamata cura. Ci piaceva stare con lui perché se ne fregava delle regole sociali, e questo per noi era liberatorio come nient’altro. Se ne fregava delle pressioni, dei compiti in classe, di mantenere buoni rapporti con la gente, di pensare al futuro. Gli importava soltanto di disegnare e di dipingere, e questo gli dava una forza tutta sua e tutta particolare che io non ho più incontrato in nessun’altra persona.
Altre cose esulavano dal nostro ruolo. Minacciò il suicidio un paio di volte.
«Che fai domani, Celso?»
«Domani non ci sarò più».
«Allora che fai oggi?»
Lo convincemmo alla fine ad andare da uno psichiatra che gli diagnosticò dopo poche sedute un disturbo paranoide. Si fece prescrivere un tranquillante di cui credo che non rispettasse le dosi, a metà mattina si addormentava sul banco come se l’avessero sedato. Ebbe un brutto periodo di dipendenza dall’alcol, ingrassò parecchio e in poco tempo. Venne rifiutato da una ragazza di cui si era innamorato e se la vide male. Credo che lì rischiammo di perderlo davvero: smise di masturbarsi per due mesi e diventò cattolico. Da che faceva impazzire il personale scolastico sostituendo ogni giorno un maiale di plastica a Gesù Bambino nel presepe che organizzavano a scuola, prese a guardarci male e arrabbiarsi ogni volta che bestemmiavamo.

Poi, apparentemente, tutto passò. Smise di bere e di fumare erba. Smise anche di girare con quel ridicolo crocefisso di legno al collo. Era l’estate della maturità, il liceo finì. Io e Lucio ci iscrivemmo all’università. «È finito il momento delle cazzate», dicevamo. Non mi risulta che da quel momento Lucio abbia mai più scritto un verso: mi domando persino se abbia più aperto un libro di poesie. Ora si mette la cravatta tutti i giorni, lavora in un ufficio al centro. Ci vediamo poco, e vede poco anche Celso. Credo che gli ricordiamo un periodo della sua vita, un momento della sua esistenza, che ha deciso di abbandonare. Io e Celso lo prendiamo in giro. «È entrato a far parte di Babilonia», diciamo. Un po’ scherziamo, un po’ sappiamo entrambi che è vero. Lavora, ha una ragazza con cui tra poco andrà a convivere, quando se lo permetterà farà i primi figli. Da qualche parte spero abbia conservato i suoi quaderni di poesie, anche se sono abbastanza sicuro che abbia lanciato quei fogli fuori dalla finestra così come li ha lanciati via dal proprio cuore. Un bel giorno, andando in università, deve essersi reso conto che scrivere versi non è un mestiere di quelli normali . Allora la paura l’ha afferrato, se l’è mangiato, e con lui tutti i suoi sogni di poeta e tutte le sue emozioni: non ha retto l’impatto con l’adultità, è tornato a gambe levate indietro nel mondo della divisione del lavoro. La ragionevolezza l’ha sedotto e lui ha tirato un calcio a tutte le follie adolescenziali di cui ci nutrivamo. A volte vorrei dargli uno schiaffo, afferrarlo e urlargli a un palmo dal muso di darsi una svegliata, che uno poeta o lo resta per tutta la vita o non lo è mai stato. Poi però ho paura che lui mi guardi con quei suoi occhi annacquati dalle responsabilità e mi dica: «Allora, forse non lo sono mai stato».
Questo non riuscirei a sopportarlo.
E dall’altro lato c’è Celso, cui non fregava granché di studiare, e che decise di assumersi la responsabilità della propria vocazione senza compromessi di sorta. Piuttosto la morte che una vita passata a fare qualcosa che non mi va di fare, credo che possa riassumersi così la sua posizione. E non è sbobba retorica come troppe se ne sentono in giro, Celso fa sul serio, ha messo la sua vita sul piatto. Lo vedo ogni tanto anche se non è facile. Esce poco di casa, solo per incontrare me o Lucio, e l’isolamento lo ha reso più scaleno di quanto già non fosse. Vive con i genitori, non fa altro che disegnare e manda le sue opere a case editrici in tutta Europa. Lavorare non gli interessa, e oramai non si sente più in grado di fare granché.
«Ma mi hai visto?» mi ha domandato seccato una volta che lo incalzavo sull’argomento. «Chi pensi possa prenderlo mai uno come me?»
Si è rasato i capelli, mi guardava con i suoi piccoli occhi neri incastrato nel volto liscio come un uovo, tutto scattante per i tic degli occhi e del collo. Provai con l’ironia, che mi sembra meno bastarda della compassione o del disinteresse:
«In effetti, Celso, per una volta hai ragione».

Lui si è messo a ridere, anche se continuava ad essere triste: mi dispiace che si senta inutile e diseredato, ma non so come aiutarlo. Resta che, nonostante tutto, insieme a lui io mi trovo bene come insieme a poche altre persone, capisco la sua spaesatezza nel mondo adulto e me la porto dentro anch’io. Su questo continuiamo a incontrarci e credo continueremo a incontrarci per sempre. Di simili questioni a Lucio oramai non importa più nulla, non ha soltanto dimenticato la beat, l’ha negata e fatta a pezzi in ogni modo possibile. E se non capisco questa sua diserzione, questo suo ammalarsi di responsabilità, ci sono molte altre cose di lui che capisco: l’angoscia che lo divora, e il bisogno che ha di sentirsi normale. Di avere un lavoro normale, costruire una famiglia normale, uscire con amici normali, fare un lavoro normale per comprare prodotti normali. Come potrei non capirlo? Anche io sento queste cose dentro che mi tolgono il fiato di notte quando mi sdraio sopra il letto.
Li capisco entrambi, io, c’è poco da fare, mi porto appresso una battaglia come tra due sangui, e ci ripenso adesso che sono scappato qui tra le montagne a lavorare in una fabbrica della valle, ci ripenso mentre spengo la sigaretta e mi dico che domani pioverà un’altra volta, che le nubi si scioglieranno in acqua e in lampi e dopo tutto sarà di nuovo chiaro, li capisco, ed ecco perché ancora li conservo nel cuore, Lucio e Celso, perché sono due opposti inconciliabili che si osservano e si scontrano dentro e fuori di me, ma sempre lasciandomi nel mezzo, incapace di propendere per l’una o per l’altra parte, io che ho venticinque anni e ancora non ho deciso chi sono.

editing di Anna Chiara Bassan.
