L’ultima volta che vidi Julia P.

un racconto di Valerio Aiolli,
tutte le fotografie di Sonia Marin.

Era più di un anno che non la vedevo. Quando apparve sulla soglia pensai che la ricordavo meno gonfia, con gli occhi più volpini. Aveva con sé una specie di zaino, cilindrico e cencioso, di colore cangiante, prevalentemente sui toni arancio. Che cosa mai ci avrà infilato dentro, mi chiesi mentre ci sfioravamo le guance. Il programma della gita non prevedeva colazioni al sacco o simili amenità: il terreno era ormai impraticabile per quel genere di cose. Dal portone alla macchina si mosse lentamente, quasi fosse costretta a concentrarsi per mettere un piede davanti all’altro. I convenevoli furono coperti dallo sbattere delle portiere.

«Credevo di essere l’unica a non essere andata via in questa città». Aveva una voce cupa. Impastava le parole l’una con l’altra, si mangiava gli articoli e le preposizioni. «Credevo essere unica non essere andata via questa città», disse in effetti. Risposi che tra due giorni me ne sarei andato anch’io.

Imboccammo l’autostrada. Alla nostra destra gli aerei sventrati erano parcheggiati per sempre nei piazzali intorno a quella che un tempo era stata una pista; il cielo perdeva a fatica il grigiore uniforme dell’alba. Julia P. mosse una mano, come per sottolineare un passaggio significativo del suo silenzio. Poi la lasciò ricadere in grembo, piombo che affonda.

«Voglio proprio vederlo, questo suo nuovo lavoro», disse.

Aveva tentato di spiegarmi, al telefono, un po’ di questa sua storia. Ma la linea andava e veniva come sempre, e poi le complicazioni amorose degli altri, in quel periodo, erano per me fonte di pesantezza.

«Mi aveva promesso, capito? Mi aveva promesso, ecco. Che ore sono?»

Erano venti alle sei.

«Dobbiamo esserci entro le sei e quarto, altrimenti è tutto inutile».

Annuii, cercando di restare attaccato alle cose da fare: il piede sull’acceleratore, le piccole correzioni al volante, lo specchietto. Le buche da scansare, i crateri da percorrere lentamente per non lasciarci il semiasse.

«Si fa vivo dopo due mesi, capito? Io stavo già cominciando starci meglio. Due mesi senza segno, biglietto, niente. Stavo già cominciando non piangere mezza giornata seguito, capito?»

Prese a rovistare in quel suo zaino.

Fazzoletti, pensai. Se si mette a piangere, faccio inversione a U qui in autostrada. Tanto non avevamo visto nessun’altra macchina, né nella nostra direzione né in quella opposta. Invece tirò fuori un pacchetto azzurro. Attesi che si mettesse in bocca la sua Gauloises. Poi le chiesi di non fumare. Non che mi dia noia sul serio. Così, per farle un dispetto. Sperando di farla arrabbiare. Reazioni: zero. Rimise il pacchetto e l’accendino in quel suo zaino. La sigaretta la lasciò tra le labbra, spenta.

«Invece poi mi dice sai, mi sei mancata. Io lì, seduta terra accanto telefono, come cretina. Mi sono venute più idee scultura quel momento che tutta mia vita. Poi non è rimasta testa manco una».

Sorrise. Del tutto indifferente alla mia imperturbabilità. Continuò a raccontarmi la telefonata e quelle che ne erano seguite. Smisi definitivamente di ascoltarla. 

«È qui, è qui. Fermati».

Accostai accanto a una siepe. La strada sterrata, che avevamo imboccato poco dopo l’uscita col casello devastato, proseguiva andando a infilarsi dentro un boschetto di faggi scheletrici.

«Io mi butto giù, così non vede».

Si rannicchiò davanti al sedile, sedendosi sopra quel suo zaino. Gettò la Gauloises intatta fuori dal finestrino. Il sole era come uno di quei bambini che raggiungono la perfezione a due-tre anni e da lì in poi non potranno che peggiorare. Perdendo, quasi tutti, l’occasione di morire dei. 

«Hai giornale?» mi chiese.

La guardai.

«Sì, così fai finta leggere. Sennò che pensa, fermo alba mezzo campagna senza fare niente».

Le risposi che, se fossi stato in lui, mi sarei insospettito di più a vedere un tizio che si ferma a leggere un giornale in macchina in un viottolo, con una tizia accovacciata accanto. In ogni caso, non ce l’avevo un giornale. Erano anni, che non uscivano i giornali. Neanche più apparivano sugli smartphone, a dire il vero.

Adocchiò una cartina dell’Europa in una tasca dello sportello. Non abboccai al suo sguardo. Gettarla via appena possibile, mi dissi.

Le chiesi come facesse a essere così sicura che lui fosse ancora in casa.

«Ho visto macchina». L’unica macchina che avevo notato era una R4 rossa mezza arrugginita, che non mi sembrava avesse le potenzialità per rimettersi in moto.

Cominciò a tirarsi i capelli sulla fronte. Un gesto che mi aveva sempre dato fastidio, quando stavamo insieme. Le detti un colpo sul braccio. Mi guardò senza capire. Senza neanche preoccuparsi di farlo, mi parve, come se non fossi riuscito a distoglierla da un pensiero divorante.

Comunque lasciò stare quei suoi capelli, castani e un po’ sfibrati.

Ero andato, quattro anni prima, all’inaugurazione di una sua mostra. La sua prima mostra. L’unica, credo. Non avevo mai visto sue sculture, a eccezione di una testa di sua madre, che lei teneva sul comodino. Non mi ci aveva mai voluto, nel suo studio. Di quella testa avevo conservato solo un’impressione, i contorni mi sfuggivano completamente e tuttora mi sfuggono. L’impressione era quella di una violenza incontrollabile. 

Quel sabato pomeriggio di quattro anni prima – le esplosioni, e tutto ciò che ne era seguito, avrebbero avuto inizio sei mesi dopo – ero stato fuori città ad ascoltare un concerto. Un coro con un repertorio di gospel e spiritual. Mi ci avevano portato vecchi amici, così vecchi che se ora mi ridico i loro nomi vedo solo immagini velate. Per tutto il tempo del concerto avevo continuato a immaginarmi che effetto avrebbero sortito quegli stessi pezzi tradotti in italiano. A chiedermi cosa ci facessero persone che vivevano in villette a schiera nella provincia italiana a cantare parole inventate due o trecento anni fa da africani ridotti in schiavitù dagli avi di quegli stessi abitanti delle villette a schiera. La musica è un linguaggio universale, aveva tentato di spiegarmi una delle immagini velate all’uscita dalla sala. Le parole no, avevo pensato. Ma ero rimasto zitto. 

Invece di rientrare subito a casa, sulla via del ritorno avevo deviato per il piccolo paese in cui era prevista l’inaugurazione di quella mostra di Julia P. Quando ero arrivato, però, il vernissage era finito. Il gruppo dei familiari e degli amici intimi si stava già dirigendo al ristorante dall’altro lato della piazza. Julia P. era riuscita a convincere il custode a riaprire e a farmi entrare, per due minuti appena. 

Una serie di bronzi dai margini indistinti. Questo è quanto mi ricordo di quella mostra. Materia troppo fresca. Come se da un momento all’altro quelle forme insensate avessero potuto cominciare a colare sul pavimento in cotto a listelli, e rovinarlo.

La vecchia R4 rossa uscì dal vialetto e si immise sulla sterrata. Attesi qualche momento. Poi feci manovra, le andai dietro. 

La persi di vista due o tre volte, sull’autostrada bucherellata e anche dopo, sulla statale a traffico alternato, ma riuscii sempre a riacciuffarla in tempo. Potei osservargli a piacimento la nuca, al tipo. Portava i capelli fino sulle spalle. Gli stavano quasi lisci sul capo, poi gli si allargavano in grossi boccoli. 

Julia P. diceva qualcosa, ogni tanto, poi si richiudeva in silenzi lunghi. Ricominciava a parlare però col tono di chi stia seguendo un ragionamento filato.

«No, dico. Ma secondo te perché non ha voluto dire, quale lavoro fa?»

Riprese a tirarsi i capelli sulla fronte. 

«Sarà un ladro», dissi. «O un magnaccia».

Negli occhi di Julia P. balenò il gemello del mio stesso guizzo di pentimento per esserci cacciati nel disagio senza fine di quella gita a due. 

Rimase in macchina. 

«Ha qualche vecchia zia, là dentro», badava a dire. «Da parte madre». 

Il sole era già alto, mi feriva gli occhi nonostante gli occhiali anti radiazioni. 

Feci il giro delle mura. Solo campi, e sole, e tralicci a sostenere gli archi di cerchio sempre più molli dei cavi che una volta trasportavano l’alta tensione. E sole, ancora. Noioso, prevedibile, senza scampo. Come le storie d’amore degli altri, che in quel periodo non riuscivo ad ascoltare.

Entrai. 

Da fuori avevo giudicato che fosse più piccolo. O almeno, che ci fossero meno tombe. Uno i cimiteri di campagna se li immagina tutti pace, vialetti, erba e spazi ombrosi. Ma anche lì doveva essere morta parecchia gente negli ultimi anni, perché c’erano lapidi fresche ovunque: per terra, sui muri, lungo i corrimano delle scale.

Per questo, forse, lo avevano assunto. Altro che zia da parte di madre. Si era infilato un cappellino nero da cui spuntava il bozzolo dei capelli raccolti, un paio di guanti di un bel giallo acceso. E scavava, in una zona dove i marmi erano stati divelti, tirando via palate di terra bruna. La zona era recintata con un nastro segnaletico bianco e rosso. Quel contrasto violento di colori – il nero, il giallo, la terra scura, il bianco e il rosso – riempiva gli occhi, annientando la forza della visione macabra. A non saperlo, il tipo poteva sembrare un qualsiasi operaio intento a scavare un canale per la posa di una tubazione.

Sarei potuto tornarmene fuori allora. Avevo già visto ciò che a Julia P. interessava che vedessi.

Invece mi avvicinai. Volevo guardarlo in faccia, dopo avergli studiato quella sua nuca per tutto il viaggio. Stava a capo chino, non era facile distinguergli i lineamenti. Portava un paio di occhialini tondi. Poi si rialzò, si appoggiò alla pala. Con la manica si asciugò il sudore dalla fronte. Si accese una Gauloises. A quel punto si accorse di me. Mi guardò con aria interrogativa, mi fece un cenno. Passai sotto il nastro. Ancora prima che lo raggiungessi mi chiese se ne volevo una. Armeggiò un po’ col taschino, il pacchetto, l’accendino. Mentre facevo il primo tiro disse di chiamarsi Dictus. Che cazzo di nome, pensai. Il suo vero nome era un altro, precisò, ma preferiva che tutti lo chiamassero Dictus. Per nascondersi meglio, dichiarò. Tirò fuori un fazzoletto, prese a strofinare le lenti dei suoi occhialini tondi. Disse: «Tu non puoi fare a meno di guardare in basso, nella buca. Vedi biancori e pensi che se solo potessimo immaginare ciò che diventiamo, ma immaginarlo dentro, come fosse una ferita che sanguina, tutto cambierebbe. È buffa, questa cosa. Le ossa che ci appaiono terribili, innaturali. È davvero buffa, perché se esistono, e se ci è data la possibilità di pensarle, perché mai dovremmo averne paura? Perché mai dovremmo scacciarle dal nostro orizzonte mentale?».

Si sedette su una lastra di marmo. Non ci capivo niente, di quello che mi stava dicendo, ma non mi dispiaceva fumarmi quella Gauloises. Disse: «Sempre ammettendo che uno abbia un’idea chiara di cosa sia la mente. C’è chi la chiama coscienza, chi la chiama anima. Parole vuote, starai pensando, parole buone per tutti gli usi. Vallo a chiedere a quel mucchio d’ossa là sotto, che fine ha fatto l’anima, starai pensando. Certo non hanno capacità di parola, quelle povere ossa. Eppure, se la natura è definita, oltre che dagli infiniti corpi che compongono l’universo, anche dalle infinite idee di tutte le cose, potremmo dire che con tutte le cose noi intendiamo sì i corpi, ma anche i pensieri, le emozioni, le menti. E potremmo dire che la mente è nient’altro che un’idea. E che se quelle ossa là in fondo esistono, significa che di esse nella natura vi è un’idea, e quest’idea è la mente di quelle ossa».

Mi piaceva stare lì, in quel mattino che quasi d’improvviso era diventato così nitido, col sole viola sopra di noi a spargere i suoi raggi distruttivi. E la sua voce, la voce di Dictus, era come un basso continuo che accompagnava l’armonia spezzata dei colori che avevo davanti. Cercai di far durare quella Gauloises più a lungo possibile. Disse: «Ma quale mente possono avere quelle ossa, starai pensando. Tu sai che al fondo di tutta la materia c’è solo il movimento, quella danza continua di particelle dotate solo di energia, prive di massa. Un aggregato di queste particelle che mantenga per un certo periodo di tempo una certa costanza di rapporti lo potremmo chiamare individuo, ecco. La mente esiste quando esiste un individuo, potremmo dire. La mente di un uomo, per esempio. E questo aggregato di particelle danzanti senza massa, che è ciascuno di noi stessi, interagisce in ogni momento con l’esterno». 

Ebbi l’impressione che sarebbe potuto andare avanti all’infinito.

Che l’unica cosa che gli mancava, nella sua piccola vita di becchino filosofante, fosse qualcuno che stesse seduto accanto a lui, a fumarsi una Gauloises mentre parlava. Disse: «Quello che noi crediamo di pensare, le immagini che abbiamo del mondo, non sono altro che idee. Idee delle perturbazioni che le cause esterne introducono nell’autonomo movimento delle nostre particelle. E chi è in grado di avere queste idee possiede immaginazione. Io immagino, per esempio, che Julia sia seduta in macchina qui fuori, e che mi abbiate seguito fino a qui da casa mia. Forse è un’idea sbagliata, ma nella natura si formano pure le idee sbagliate. Esistono i pazzi, in natura, come quelli che hanno tirato i missili qua intorno, e questo perché noi siamo esseri finiti, con la nostra logica finita. Siamo dentro l’infinito, ma non siamo in grado di intenderne la logica, perché l’infinito non ha un fine a cui tendere, mentre noi siamo pieni di fini».

Sulla via del ritorno ci fermammo in quello che un tempo era stato un autogrill. Il self-service era chiuso, al bar un tipo con la barba aveva messo su un banchetto, prendemmo un Rustico ciascuno. Mentre ce li scaldava su una brace fumigante, Julia P. andò in bagno. 

Ero tornato in macchina e le avevo riferito che Dictus scavava fosse. Lei era rimasta immobile e muta per un paio di minuti. Poi era scoppiata a ridere, una risata dal profondo dello sterno che la squassava tutta. Avevo rimesso in moto ed ero ripartito, ma dopo un po’ mi ero dovuto fermare: la sua risata mi aveva contagiato. Avevo accostato e spento di nuovo il motore, ed eravamo andati avanti a ridere senza controllo, come due ragazzini scemi.

Tornò dal bagno che già i panini erano freddi. Ci appoggiammo a uno di quei tavolini rotondi, che una volta erano ingombri a qualsiasi ora di bicchieri di carta con due dita di Coca, e briciole, e salviettine immonde.

«Me la sono fatta addosso», disse. Non aveva ancora del tutto riacquistato la sua tetraggine. «Prima, mentre avevamo la ridarella. Si vede?»

Lanciai un’occhiata. Un’ombreggiatura scura intorno alla patta.

Le risposi che non si vedeva. Scoppiò in un’altra risata, mi fece una carezza. Senza che le chiedessi niente mi spiegò che si stava immaginando che cosa le avrebbe detto il suo analista una volta saputo che lei era innamorata di un becchino.

«Ma esistono ancora gli analisti?» chiesi.

«Certo, quelli non muoiono mai».

«Perché non lo lasci?» la incalzai.

«Dictus!?» chiese spaventata.

«L’analista».

Affondò nel panino. Masticava, poi si fermava, poi riprendeva a masticare. Facevo così anch’io, ma solo per diluire con abbondanti dosi di saliva il sapore di disinfettante del formaggio fuso.

«Glielo dirai?» le chiesi.

«All’analista che sono innamorata di un becchino?»

«A Dictus. Il motivo per cui l’hai pedinato».

Smise di masticare, di nuovo, e si artigliò il labbro inferiore con i piccoli incisivi. 

Il resto della storia, poi, è quanto di meno interessante. Due giorni dopo io lasciai per sempre la città martoriata, e bene o male superai quel mio momento, diciamo così, di stallo. Ricominciai a ricevere i giornali sullo smartphone, tanto per dirne una. 

Dictus non volle più saperne, di Julia P. Lei si sentì così male che preferirono ricoverarla in una clinica. Adesso sta lì, e l’unica che la va a trovare è sua madre. Di scultura non vuole neanche sentir parlare. Si è fatta portare un libro di Spinoza, non fa altro che rileggerlo. Dice che Spinoza aveva capito tutto.

Io, francamente, ancora no. 

editing di Anna Chiara Bassan.

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