APPUNTI SU DI NOI, SUL MIO CONSOLATO E SULLA FINE DEL MIO NEMICO
Nell’ambito delle sfere che roteano l’una attorno all’altra in cerca d’una fine, palle che piegano materia in tutte le direzioni e cadono o fanno cadere altre palle e quindi le schivano o le sfuggono, lo scopo finale della breve vita di ogni individuo è quello di servire. Servire a qualcosa, servire gruppi di persone di grandi o piccole dimensioni, oppure servire qualcuno in particolare.
Si può dire — senza timore alcuno di sbagliarsi — che in quest’epoca così strana e turbolenta si abbia avuto la fortuna che, tra tutti coloro che sono serviti (a qualcosa, oppure a gruppi di persone di grandi dimensioni, perché quelli che servono gruppi di persone di piccole dimensioni oppure qualcuno in particolare — nonostante l’eguale scopo finale — hanno di solito la sfortuna di non rimanere noti), i menzionabili siano stati questi due in particolare.
L’Uno è colui che ancora oggi sta permettendo alla società (e quindi a un gruppo di persone di grandi dimensioni) di controllare il mondo con i propri prodotti, di avere una bilancia commerciale sempre positiva nonostante l’esotismo di alcune delle cose di consumo quotidiane, e che minuto dopo minuto sta provvedendo ad abbattere confini e annettere regioni, con la bocca e con la spada, tanto che un giorno — chissà — riuscirà magari anche a portarci per la prima volta fuori dal sistema solare. A toccarle, le sfere rotanti. E una volta fuori, pure lì, abbattere, annettere e vendere a ignoti gli oggetti prodotti dalle nostre intelligenze.
L’Altro è colui che ha salvato casa (servendo, quindi, a qualcosa), e cioè che ha impedito lo scempio: il più ampio e terribile tra quelli progettati dai membri di una comunità già di per sé ancora sanguinante per gli infiniti lutti del passato. L’Altro è stato la nemesi di quel membro virile della società civile che un giorno, in assenza dell’Uno, decise di mostrare al popolo come si fa una sedizione.
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La nostra città, la nostra patria, esiste da sempre.
I nostri genitori no.
A chi, dunque, deve maggior gratitudine il nostro popolo?
Lo sviluppo economico e sociale è oggi tale da permettere ai cittadini di vivere di fatto senza il bisogno di leggi particolarmente stringenti: i cittadini fanno di loro volontà quello che le norme di uno stato compiuto e civile imporrebbe loro. Il compito dello stato rimane solo quello di mantenerli tutti in vita, il più a lungo e il più agiatamente possibile.
La nostra città pensa per tutti: ogni cosa è fornita. Vivreste dunque voi meglio in un piccolo villaggio del deserto piuttosto che qui? Di sciocchi in giro, io non ne vedo.
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I meccanismi d’una perfetta sedizione non esistono: la tecnica necessaria alla sua ideazione, sviluppo e compimento dipende largamente dalla salute dello stato nel suo complesso e l’indice di polarizzazione tra le classi sociali: una linea il più piatta possibile tra i due — comunque inevitabili — estremi, oltre che abbastanza alta nel grafico, dovrebbe garantire con buona approssimazione la pace civile lungo molte orbite del pianeta attorno alla sua stella. È la linea che, da noi, c’è sempre stata e che, pare, si stia incrinando.
In assenza dell’Uno e sottovalutando l’Altro, ne ha approfittato quel membro virile della società che ha fatto ciò che ha fatto, corrompendo i più giovani e i più umili, e rischiando di sovvertire l’intero ordine costituito.
Il prestigio conseguito dall’Altro nel tramortire con relativa facilità ma con grande valore e infine azzerare l’entropia dello stato avrebbe dovuto quindi garantirgli un’imperitura immunità ai rischi della vita e in particolare della vecchiaia. Il prestigio come un’armatura di metallo inossidabile. Chissà.
E a tutti i cittadini corretti: garanzie sui loro beni e possedimenti, le spose, i figli, la loro città, la città dove sempre hanno vissuto e per sempre continueranno a vivere. Tutto questo era a rischio e tutto questo è stato sventato.
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Lo scopo finale della nostra azione è in ultima analisi solo la felicità.
La sicurezza ne è una delle chiavi. Nulla ci può succedere di male, al giorno d’oggi, ed è perché il cittadino non vuole rischiare. Del resto, perché lo vorrebbe, accudito com’è? Meglio mettersi in fila ogni giorno per i controlli, spogliarsi, mostrare la perfezione ormai comune a tutti, meglio dunque questa esibizione continua degli stessi addominali e i glutei tonici (nessuna volgarità!) prima di entrare nei nostri centri commerciali piuttosto che rischiare l’esplosione e il collasso di tutto quel che racchiudono al loro interno. Incluse, certo, le vite dei cittadini. Alcuni protestavano per il tempo perso ogni giorno, i minuti, poi le ore, la fatica, ma bisogna sempre ricordarsi che il tempo, l’energia, tutto appartiene allo stato che mantiene tutti. Cosa avreste di meglio da fare, altrimenti?
L’altra chiave è la ricchezza dei beni. E in questo, lo dico ringraziando uno per uno i nostri padri, siamo senza alcun dubbio i migliori da tempo.
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Il salvatore di questa città, al rango di Dio. Simile al Primo, a chi la fondò, a chi decise di estrarre queste lamiere dal deserto lasciato da primitivi antenati, al prezzo di così tante vite. Il salvatore, simile a Quelli che poi inventarono gli algoritmi e che per molte orbite hanno graziato la popolazione dai tormenti del lavoro. Simile a tutti Loro.
Spiegare quello che è accaduto è semplice.
Quando il membro virile della nostra società se ne andò dalla capitale (espulso dal salvatore con sentenza inappellabile, oppure per propria volontà, o accompagnato e salutato dalle autorità in maniera ufficiosa: non è dato saperlo), il salvatore continuò la sua opera di controllo firmando anche civili accordi con fornitori di manodopera d’emergenza che forse avrebbero potuto ripristinare lo stato pre-crisi dell’economia, senza il bisogno di interventi sanguinari e sediziosi da parte di chi era solo interessato al potere.
Perché il membro virile non è stato arrestato o ucciso, perché gli si è permesso di rifugiarsi tra le montagne come una capra qualsiasi?
Perché siamo in democrazia. Perché egli era potente. E aveva ancora qualche amico potente, in città. Perché nell’arrestarlo o nell’ucciderlo, la sedizione sarebbe partita dentro le mura e non fuori, accentrando istantaneamente migliaia di cittadini. A cui, così facendo, è stata risparmiata la vita. A loro così come al salvatore, novello Stalin incapace di fare arrestare Trotzki nel 1927, ai primi segnali di una possibile terza rivoluzione in Russia, per non essere ammazzato nei tumulti. Fecero bene entrambi, lo dice la storia.
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Se il lavoro sembra essere un concetto superato, va da sé che lo studio serva a ben poco.
Sciocche parole queste appena pronunziate, più sciocche che furbe sebbene — non si può negare — c’è sì della furbizia in quello che sostengono.
Chi non studia non lavora ma mangia — la nostra città è come il Valhalla.
Chi studia, invece, lavora. Come imperativo morale, lavora per il benessere continuo di tutti, per assicurare alla popolazione la vita che si merita.
E mangia anche, mangia più della media. E in questo, forse, c’è furbizia.
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In pratica dopo che il membro virile se n’è andato, l’Altro, il salvatore, nonostante tutta la sua lungimiranza era in effetti convinto che tutto sarebbe finito quel giorno. E cioè che tutti i seguaci l’avrebbero seguito in esilio oppure che l’assenza di una guida forte l’avrebbe fatta finire lì.
Non finì lì.
Erano rimasti in città i peggio figuri. Gente del partito, anche. Senatori. Preparati. Ma non quanto il salvatore, simile a Dio.
Chi lo informava, grazie a ingenuità di alcuni della cerchia del membro virile, l’aveva prevenuto di quei messaggeri venuti da fuori, da molto lontano, da un altro paese. Un viaggio lungo, un viaggio forse inutile vista la tecnologia di cui disponiamo, o forse necessario — perché la tecnologia tradisce, ti fa beccare. E questi furono beccati lo stesso.
Una rivolta in una provincia, un diversivo, o magari qualcosa di più grosso, una piccola parte di tutte le città e province che la sedizione aveva in mente di coinvolgere. E insieme a queste informazioni: i nomi dei cittadini coinvolti e ancora residenti tra le mura della città. Le “manovre invisibili” à la Trotzki di cui parlava Malaparte. Ma se Trotzki alla fine fu fregato perché alle sue piccole truppe d’assalto si contrapposero altrettanto piccole truppe di difesa all’interno degli edifici del governo (invece di dispiegare e quindi disperdere l’intera armata attorno a ogni obiettivo sensibile), a questo qui, al membro virile della nostra società, io lo fottei dentro e fuori senza che all’interno della capitale si riuscì manco ad amputare un polpastrello a uno dei nostri.
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Non tutti nascono artisti ed è bene così, gli artisti sono tradizionalmente dei figli di puttana autoreferenziali drogati di dopamina e pronti a tutto pur di apparire almeno un pochino. Ma lì dove non si studia, non si lavora e si mangia, chi non ha studiato e quindi non lavora (e non è che possa mangiare in continuazione) non sa come passare il proprio tempo.
Ci sono dunque: gli artisti veri; gli artisti che non ci sono nati e che vogliono comunque passare il tempo a produrre del materiale; e, infine, chi non appartiene ad alcuna di queste categorie, e cioè gli annoiati.
Gli annoiati, è lo stato che deve prenderseli in carico.
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Hanno parlato. E che cosa potevano fare, poveri cristi innanzi al proprio padre? E i loro telefoni sono stati portati innanzi ai senatori, e le conversazioni con il membro virile sbobinate e lette in assemblea, davanti alle teste chine dei colpevoli, a dei rossori quasi adolescenziali, fronti fredde, lucide, grondanti acqua e sale.
“Assicurati di radunare le genti, più aiuti possibili [e qui, più che ai blitz vincenti di Trotzki nel 1917 sembrerebbe la strategia, abbandonata, che voleva impiegare Lenin per abbattere il governo di Kerenski: fallimentare, la gente non si suiciderebbe per te, membro virile], anche tra i più umili”. I più umili, loro, la mia manodopera, la strategia post-intelligenza. Meschino.
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Quella volta lì fu una cosa di pochi mesi, un anno, il tempo per me di arrivare a sistemare le cose. Del resto l’economia politica è materia semplice, si tratta sempre e solo di decidere chi deve pagare cosa: con l’inflazione alta si fan pagare i creditori, le banche soprattutto, con quella bassa ognuno paga i propri debiti. Con i sostegni alle imprese pagava il cittadino nella speranza che poi le imprese usassero i fondi per assumerlo. Oggi, con i sussidi, beh, al punto dove siamo noi, non paga di fatto nessuno: se non li versassimo (stampassimo, in verità) la roba prodotta dalle intelligenze non sarebbe comprata e ci perderemmo tutti di più.
Certo, quella volta lì servì bilanciare meglio i fattori di produzione. E trovarne di nuovi. Per evitare inflazione, vedi sopra.
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E quindi gli ex colleghi sono stati dati in custodia alle autorità competenti che ne prenderanno buona cura fino al giudizio del senato. E soprattutto all’Altro, al salvatore, a me, la consegna pubblica del riconoscimento più alto della repubblica, primo tra tutti i civili a riceverlo nella nostra lunga storia, per aver salvato la popolazione dalla guerra, dagli incendi, dagli eccidi.
Ne manca ancora uno da prendere, il solo che mi faceva paura, fin quando era tra noi. Ora non più, e il suo tempo verrà. Continuate pure a fare buona guardia stanotte, ma non preoccupatevi: che voi possiate non doverlo fare più, in futuro, è il compito mio.
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I piani di emergenza per far lavorare la gente nel sommo momento del bisogno non funzionarono molto bene, va detto chiaramente. Una pletora di smidollati — lo dico perché con difficoltà posso pensare che mai leggeranno queste mie parole — male educati dalle famiglie e dallo stato, abituati a essere puramente dei consumatori, degli ingordi Cariddi. Uomini senza biblioteca e senza orto.
Va anche detto che io ancora non avevo le grandi responsabilità che ho avuto poi.
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Che il senato non si preoccupi del destino del salvatore. Il salvatore sa soffrire in silenzio per il bene dei suoi concittadini: egli è uomo dalle molte rinunce. Come quella ricca provincia oltre il nostro mare, che gli sarebbe spettata per anzianità e prestigio ma che con grande ampiezza d’animo ha ceduto al suo compagno in questo turbolento consolato.
Lo stesso non si può dire degli infami oggi presenti in aula, per la prima volta in manette e senza diritto di voto: gente mai disposta ad alcun sacrificio e a cui sarà richiesto, nel breve periodo, di affrontarne uno. Richiesto, intimato, imposto con la forza: il sacrificio della ricchezza, certamente, e più probabile ancora il sacrificio della libertà. Il sacrificio della propria vita, forse, ma non sarà questa una decisione del console, ma vostra, padri coscritti.
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Quei detriti che risplendono in cielo, giorno e notte, da mesi ormai. Sventura? Semplice astrofisica spinta a conseguenze terminali? Insieme a essa: mondi devastati che ci orbitavano attorno? Devastati più del nostro? Beh, sì: più del nostro, silly me.
Mi dicono fosse un’esplosione, dovuta, attesa da anni, proprio come queste nostre macchine che tanto ci aiutano nei compiti quotidiani. Una rivoluzione anticipata dagli avi. Un collasso cosmico, come il vecchio sistema, il capitalismo di prima divenuto il capitalismo di oggi, gli stessi atomi nello spazio combinati in maniera diversa. Forse più caotica e devastante.
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Qual castigo per i traditori della repubblica, o padri coscritti? Chi guida il governo dei beni comuni — il salvatore, l’Altro — certo sente il bisogno di parlare per primo, sente il bisogno di esprimere non tanto la propria opinione, ma quella della democrazia tutta intera. È il popolo che parla, con me. Una sintesi.
Innanzitutto l’urgenza. Che segnale daremmo al cittadino se ci alzassimo da qui senza una decisione, senza una sentenza? Facessimo pure notte tutti insieme, si stabilisca una pena per questa gente — una pena severa — prima di uscire da quest’aula e tornare ad abbracciare i nostri cari.
E poi l’applicazione di questa decisione. Mi impegno a farla rispettare, qualsiasi essa sia.
E dunque: due, le fazioni.
Il Cardinale vorrebbe risparmiare loro la vita. Privati dei beni, in esilio, ognuno in un posto diverso, guardati a vista. Il Cardinale propone che questa decisione sia irrevocabile, nessuna amnistia possibile, nessuna decisione politica atta a ripristinare le loro libertà. In una parola: l’assenza di speranza. E non è forse l’assenza di speranza peggiore della morte? Una lunga giostra piatta, senza salite né discese e con identico panorama, oppure una morte che a tutti garantirebbe una pronta discesa da questo noiosissimo ottovolante?
Ecco, questa è l’altra posizione, quella del senatore Guru: per i prigionieri la fine definitiva del loro inutile girare insieme a tutti intorno a sfere molto, molto più grandi di loro e di noi. Mi faccio garante di donar loro una morte serena, niente di truculento, niente sofferenze insensate.
Il console una preferenza ce l’ha, ma si rimette a voi, padri coscritti.
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Se le macchine ci aiutano in tutto e ci aiutano a essere migliori in quello che facciamo, possiamo essere tutti i migliori? O forse ci stiamo solo obbligando a usarle per non restare indietro rispetto agli altri — competere contro le intelligenze non è semplice — ne siamo dunque schiavi?
Governare non è semplice.
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La linea del Guru, che ammetto alla fine di aver sostenuto anche io, è passata.
I prigionieri sono stati strangolati. La pagherò solo io per questo, questioni di responsabilità e io di certo so prendermela.
Sono stati strangolati in fondo al pozzo, lì: vicini al centro della terra, dove l’enorme gravità fa sì che noi dall’alto potremmo vederli per sempre in vita, sgomenti, nei loro ultimi attimi: il loro tempo che per noi passa lento, prigionieri pressoché immobili come nell’orizzonte degli eventi.
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Di questi tempi le prostitute si aggirano per la città insieme a madri di famiglia.
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Gli ausiliari sono dappertutto. Ci servono in tutti i sensi. Sono le più nobili, le occupazioni che garantiscono il benessere dello stato!
Eppure credo che la pervasività degli ausiliari sia utile più al sistema nel suo complesso che a noi. Lo tiene in vita. Si dimostrano più gentili rispetto alle esperienze che giungono a noi dagli anni passati. Efficienti.
Eppure.
La mia buona azione di governo, sia pur tristemente, dipende da loro. E poi garantiscono che la responsibilità finale rimanga anonima, decentralizzata, e che il cittadino non debba, per nessun motivo, interfacciarsi con me.
Vediamo come va a finire. Sono stanco, stanco anch’io.
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Sull’affare del senatore C. — dell’ex membro virile di quest’assemblea — e dei suoi seguaci, non ho più niente da dire. Possano dimenticarseli pure i posteri.
da Gli ausiliari, di Gabriele Esposito